La porta per uscire dalla violenza è sempre aperta

Se non indicato espressamente, le informazioni riportate in questa pagina sono da intendersi come non riconosciute da uno studio medico-scientifico.
È importante conoscere le origini della parola “femminicidio” per capire perché è importante usarla.
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Beatrice Barra 25 Novembre 2022

Perché diciamo femminicidio e non semplicemente omicidio se si parla di una donna? La violenza o addirittura l’uccisione di una persona non ha genere, visto che il diritto alla vita è di tutti. Però ci sono due considerazioni da fare.

Non solo numeri

La prima riguarda i numeri. Stando al report aggiornato al 20 novembre 2022 della Direzione centrale della Polizia Criminale, in Italia ci sono stati da inizio anno 273 omicidi volontari. Di questi 273 omicidi, 104 riguardano donne e 88 di questi si sono verificati in ambito familiare o affettivo. Ciò vuol dire che 88 mariti, padri, fratelli, amici, fidanzati, cugini o spasimanti hanno tolto la vita a una persona della quale in teoria avrebbero dovuto volersi prendere cura, per la quale avrebbero dovuto provare affetto.

Fonte: Servizio Analisi Criminale, interno.gov.it

Numeri che – dobbiamo ricordarlo – non sono solo numeri, ma storie di ragazze o donne sottoposte prima di ogni altra cosa a una paura enorme e costante che cresce a ogni insulto, ogni tentativo di limitare la sua libertà, ogni appostamento sotto casa, ogni schiaffo seguito da lacrime e richieste di perdono. Donne che vedono messa in discussione quotidianamente la loro capacità di essere donne; che, magari, prima di diventare vittime si erano semplicemente innamorate o fidate di un uomo che sembrava gentile e rispettoso e che solo dopo si è rivelato violento, quando ormai si era già fatto spazio nella loro quotidianità, conosceva le loro abitudini e le loro fragilità.

Le origini del termine "femminicidio"

La seconda considerazione da fare è che questo termine ha delle origine storiche e delle connotazioni socio-culturali che non possono essere ignorate e che spiegano e giustificano  l’esistenza e il carattere di eccezionalità. Nell’Ottocento questa parola era già usata per indicare l’assassinio di una donna in quanto tale, ed era contemplato nel Law lexicon del 1848 come crimine perseguibile.

Law Lexicon, 1848

L’uso contemporaneo del termine femminicidio, invece, lo dobbiamo a una donna molto intelligente che si è resa conto di essere davanti a un problema sociale, piuttosto che a un caso isolato. Questa  donna è Marcela Lagarde, un’antropologa messicana, che nel 2004 usò questo termine per attirare l’attenzione dell’Europa sulla situazione drammatica vissuta dalle donne nella città messicana di Ciudad Juárez,  nella quale dal 1993 iniziarono a sparire e ad essere uccise tantissime donne. Questo portò poi a usarlo per la prima volta in modo ufficiale nella risoluzione del Parlamento europeo del 2007 che riguardava appunto gli assassinii di donne in Messico e America centrale.

Per Marcela Lagarde questo termine esprime la forma estrema della violenza di genere contro le donne. Estrema non solo perché crudele, ma anche perché si trova all’estremità di un percorso fatto da violazioni in ambito pubblico e privato. Piccole violazioni una dietro l’altra che, rimanendo impunite e ignorate, piano piano diventano sempre più grandi e mettono la donna in una condizione indifesa e di rischio in cui non ha rifugio né protezione e che poi, spesso, purtroppo, culminano con i casi di cronaca che sentiamo sempre e che si trasformano nei numeri che abbiamo analizzato prima.

L'ultimo scalino di un'escalation di violenze

Con il termine femminicidio, quindi, non ci si riferisce solo all’uccisione in sé di una donna, perché altrimenti – appunto – sarebbe corretto usare il termine omicidio. Non è un incidente isolato che deriva da una perdita improvvisa di controllo, da malattie psichiatriche dell’assassino, da un torto commesso e, insomma, da tutte le motivazioni che stanno dietro a un omicidio. Il femminicidio è l’ultimo scalino di un’escalation di violenze economiche, psicologiche, fisiche, sessuali che la donna subisce – spesso per il solo fatto di essere donna – e che dovrebbero essere evitate garantendo protezione e scardinando un modello socio culturale patriarcale in cui la donna si trova in una posizione di subordinazione.

Starai pensando che non è vero che la donna si trova in una posizione di subordinazione oggi. Che le donne sono riuscite a raggiungere livelli altissimi della gerarchia sociale. E hai ragione. Ci sono grandi imprenditrici, scienziate, giornaliste, sportive di talento e di successo. Ma quanta fatica in più hanno dovuto fare- rispetto a un uomo – per arrivare dove sono oggi? Per essere considerate all’altezza di quelle posizioni e dimostrare di meritarle? E soprattutto, siamo sicuri che tutti gli uomini accettino – davvero – questa “parità” oppure, banalmente, un “no”? Stando ai numeri, purtroppo, non sembra essere così.

La porta per uscire dalla violenza è sempre aperta

Non è sempre facile riconoscere un uomo violento. È per questo che dal 2019, grazie al lavoro e alle richieste dei centri antiviolenza attivi in Italia e all’introduzione del Codice Rosso – una legge  a tutela delle donne e dei soggetti deboli che subiscono violenze, atti persecutori e maltrattamenti – sono state inasprite le pene e introdotte nuove fattispecie di reato legate alle diverse forme di violenza: dalla diffusione di immagini sessualmente esplicite, allo stalking. Sul sito della Polizia di Stato puoi trovare delle brochure che definiscono quelli che sono gli atti persecutori e indicazioni per le vittime, oltre che a un violenzametro: uno strumento per valutare quanto ci si trova in pericolo.

Violenzametro, Carabinieri.it

Questo strumento spiega quali sono i campanelli d’allarme per rendersi conto di essere vittima di violenza di genere, visto che – come abbiamo detto – non sempre è facile accorgersene, oppure accettarlo. Passa da “ti ignora” a “pensi che potrebbe essere capace di ucciderti o farsi del male”. Perché l’amore non ha niente a ché fare con i lividi, ma nemmeno con insulti, bugie e pressioni.

Parlarne, sì, ma in modo corretto

Abbiamo scelto di non raccontare una storia di violenza o un femminicidio. Ci avrebbe fatto prendere più click, forse. Ma non avremmo rispettato quello che è o dovrebbe essere un dovere morale e sociale di tutti: parlare della violenza sulle donne nel modo corretto, senza attuare o essere complici di  quella che i centri antiviolenza chiamano vittimizzazione secondaria, che espone la vittima nuovamente alla tragedia personale vissuta, e, spesso anche alla gogna mediatica.

Abbiamo deciso di parlarne in modo analitico. Come si fa con tutti i fenomeni sociali che devono essere analizzati per essere capiti e contrastati.

Cosa puoi fare per cambiare le cose

Denunciare e rivolgersi a un centro antiviolenza è un incredibile atto di coraggio necessario per uscire da situazioni di questo tipo, ma per farlo è necessario che una donna si senta al sicuro e supportata da uno Stato che si impegna a proteggerla e a sostenerla sotto ogni punto di vista. E agli uomini perbene chiediamo di prestare attenzione anche al più piccolo dei gesti:  di non insistere a un “no”, di scegliere bene le parole da usare e, più in sintesi, di lottare insieme a noi e fare un gioco di squadra per far sì che la società diventi un posto in cui le differenze non si fanno tra uomo e donna, ma tra persone perbene e persone che non lo sono.

Nessuno può denunciare al posto della vittima, ma se pensi che una donna che conosci sia in vittima di violenza di genere, chiama un centro antiviolenza per farti spiegare come poterla aiutare senza metterla in pericolo.

Se credi di essere vittima di violenza chiama il 112 o il numero antiviolenza e anti stalking 1522 attivo 24 ore su 24 tutti i giorni. Riceverai tutto l’aiuto che ti serve e la massima riservatezza. La porta per uscire dalla violenza è sempre aperta.