L’impatto degli allevamenti intensivi sul Pianeta e sulla salute: il report dell’Associazione Medici per l’Ambiente

Quando parliamo di ridurre le emissioni, non possiamo dimenticarci del nostro modo di produrre e consumare il cibo. Un sistema che inquina, brucia risorse e soprattutto fa male alla nostra salute. ISDE ha sviscerato tutti i pericoli degli allevamenti intensivi e ha indicato nel biologico la possibile soluzione. Ma servono controlli e regolamentazioni migliori.
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Giulia Dallagiovanna 7 Ottobre 2021

Allevamenti intensivi. Difficile oggi trovare una persona che ne sostenga la necessità. Altrettanto difficile che quella stessa persona sappia spiegare nel dettaglio quali rischi stiamo correndo continuando a sostenere questo sistema produttivo. Sì, perché quando parliamo di transizione ecologica ci concentriamo sulla decarbonizzazione, sulla mobilità elettrica, sulla riduzione delle emissioni da parte delle industrie. Eppure già nel 2006 la FAO pubblicava il famoso rapporto "L'ombra lunga del bestiame" in cui imputava proprio all'allevamento il 18% del contributo globale alle emissioni di gas serra. E pochi anni dopo, nel 2010, aggiungeva come il settore lattiero caseario, durante le fasi di produzione e traporto, fosse responsabile del 4% delle emissioni provocate dall'uomo.

Non possiamo, in sostanza, pensare di affrontare il problema del riscaldamento globale senza parlare della nostra dieta. E non possiamo nemmeno ignorare quanto ambiente e salute siano strettamente intrecciati, almeno non da quando siamo stati investiti da una pandemia. Proprio questo legame viene ripercorso e sviscerato nel position paper pubblicato di recente da ISDE – Associazione Medici per l'Ambiente, allo scopo di contribuire al dibattito sul Green New Deal che dovrebbe rendere l’Unione europea a impatto climatico zero entro il 2050.

Il nostro fabbisogno di carne

Di tutte le informazioni raccolte nel documento, forse una dovrebbe farci riflettere più di tutte: gli allevamenti intensivi si sviluppano a partire dalla seconda metà del Novecento. Esistono, in poche parole, solo da qualche decennio. Sì, certo, per far fronte all'aumento di popolazione che si è verificato nel Dopoguerra, ma anche perché la carne, che per tanto tempo era stato ritenuto un cibo per ricchi, grazie al benessere economico crescente poteva essere accessibile praticamente a tutti. E quindi, sottolineano gli autori del paper, non parliamo di "necessità" alimentare, ma di "desiderio". Un desiderio che un report dell'Università di Oxoford ha tradotto in chili consumati ogni anno da ciascuno di noi: se negli anni '60 erano 23, oggi sono almeno il doppio.

La carne, ovvero l'alimento posto al vertice della piramide della dieta mediterranea. Secondo i dettami di quello che, ad oggi, è riconosciuto come il piano alimentare più sano e sostenibile, dovremmo mangiarne non più di 3 o 4 porzioni a settimana, tra bianca e rossa. Per non parlare poi dei prodotti processati e ultraprocessati come salumi, salsicce e würstel, che dovrebbero finire sulle nostre tavole con cadenza "occasionale". Dunque il consumo che facciamo di prodotti animali è decisamente superiore alle necessità del nostro organismo.

Ogni anno 34 mila decessi per tumore possono essere ricondotti a diete troppo ricche di carni rosse e processate

Nel 2015 la IARC, l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, ha passato in rassegna 800 studi epidemiologici su popolazioni provenienti da ogni parte del mondo e ha inserito le carni processate tra i cancerogeni certi, mentre quelle rosse tra le sostanze probabilmente cancerogene per l'uomo. "I tumori maggiormente correlati al consumo di tali alimenti – spiega l'ISDE – sono quelli dell'apparato digerente, in particolare i tumori del colon-retto, ma anche quelli a carico di pancreas e stomaco; trovata una associazione positiva anche con il cancro alla prostata". E aggiunge: "Il consumo di carne comporta anche un aumentato rischio di malattie cardiovascolari, epatiche, renali, diabete ed accentuazione di disturbi respiratori". Il risultato è che il Global Burden of Disease nel 2019 calcolava come 34 mila decessi per cancro ogni anno potessero essere attribuibili a diete ricche di carni rosse e lavorate.

Cos'è un allevamento intensivo

Dal punto di vista legislativo, non esiste una definizione di allevamento intensivo. E forse è anche per questa ragione che fin da piccoli siamo stati abituati a pensare a quel sistema produttivo come l'unica forma possibile. Secondo il decreto legislativo Norme in materia ambientale del 2006, si può parlare di allevamento intensivo quando vi sono:

  • 40mila posti pollame
  • 2mila posti suini da produzione (di oltre 30 kg)
  • 750 posti scrofe

Ma siamo di fronte a una visione che va oltre i semplici numeri. Come proprio ISDE fa notare: "Con tale trasformazione l’azienda agricola da entità autonoma ‘a ciclo chiuso', in cui la presenza di animali era commisurata e compatibile con le necessità del podere, si era aperta al mercato, diventandone sempre più dipendente. Si abbandonavano le colture tradizionali per impiantare monocolture sempre più settoriali e specializzate ed anche il cibo si trasformava in una ‘commodity', sottoposta alle leggi della finanza e del mercato".

Al posto degli animali arrivavano i trattori e mezzi meccanici sempre più tecnologici, mentre i primi venivano rinchiusi in spazi piccoli, con la unica funzione di diventare prodotti da macello. La più alta concentrazione di allevamenti si trova in Pianura Padana. Quante mucche o quanti maiali hai visto l'ultima volta che l'hai attraversata? Probabilmente nessuno.

L'impatto sulla salute

Animali in spazi troppo ristretti, costretti a convivere quasi uno sopra l'altro in un assembramento senza scampo che spiana la strada a epidemie e malattie pericolose. Possiamo tornare indietro agli anni '90 e ai primi casi di morbo di Creutzfeldt-Jakob, la mucca pazza, derivato dal consumo di carne bovina infetta. Ed era infetta perché nel mangime erano state triturate pecore morte per scrapie, una patologia che appartiene alla medesima famiglia delle encefalopatie spongiformi. Più recenti invece i casi di aviaria e influenza suina, anch'essi frutto di un salto di specie che ha permesso al virus di passare dall'animale all'essere umano.

ISDE individua principalmente due rischi che gli allevamenti intensivi rappresentano per la nostra salute:

  • Zoonosi: ovvero lo sviluppo di malattie tra gli animali che possono poi venire trasmesse all'uomo. L'Istituto superiore di sanità ha stilato un elenco di alcune con cui già ci stiamo interfacciando.
  • Antibiotico- resistenza: le condizioni in cui vivono gli animali nelle allevamenti intensivi ne provocano anche una riduzione delle difese immunitarie e di conseguenza impongono un frequente ricorso ad antibiotici per scongiurare il rischio di infezioni. Ma questa situazione sta favorendo l'aumento dell'antibiotico-resistenza, un problema che già oggi provoca la morte di 10mila persone all'anno, solo in Italia (che è anche tra i Paesi messi peggio).

L'impatto sull'ambiente

Ma la prima impronta, lo sappiamo, è quella sull'ambiente. Lo sappiamo, sì, ma in che modo di preciso gli allevamenti intensivi contribuiscono all'inquinamento? ISDE fornisce un elenco completo di tutte le conseguenze di questo sistema produttivo:

  • Consumo e inquinamento di risorse idriche: secondo uno studio del 2020 pubblicato su Nature Sustainability, negli Stati Uniti l'irrigazione dei campi per produrre mangimi da destinare agli allevamenti intensivi è la principale fonte di consumo di acqua dolce. E dopo il consumo, subentra l'inquinamento. Sempre la FAO spiegava come: "La produzione di mangime e foraggio, l'applicazione del concime sulle colture, e l'occupazione delle terre dei sistemi estensivi, sono tra i principali fattori responsabili degli insostenibili carichi di nutrienti, fitofarmaci e sedimenti nelle risorse d'acqua del pianeta".
  • Deforestazione: la ragione per cui l'Amazzonia brucia, ad esempio, è per lasciare spazio alle coltivazioni di soia. E no, non per chi ha scelto una dieta vegetariana, che è circa il 6-7% della popolazione globale, ma per i mangimi destinati agli allevamenti intensivi di polli, suini e bovini. Quella soia che favorisce una più rapida crescita della massa corporea e quindi fa in modo che l'animale, di fatto, renda meglio.
  • Perdita della biodiversità: tutto questo uso e consumo di suolo e risorse altera gli ecosistemi e provoca una perdita della biodiversità di cui, fa notare la FAO, il settore zootecnico è uno dei principali responsabili.
  • Emissioni di gas serra e particolato: secondo l'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l'agricoltura rappresenta circa un quarto delle emissioni di gas serra prodotte dall'uomo a livello globale. Di queste, il 70% deriva dal settore zootecnico. Nel 2018 l'ISPRA (Istituto superiore di protezione e ricerca ambientale) calcolava come dall'agricoltura dipendesse il 94% delle emissioni di ammoniaca, che contribuisce poi alla formazione di particolato. In tutto, l'allevamento è responsabile del 14,5% delle emissioni di gas serra di tutto il Pianeta.

Viene ora da chiedersi se in un mondo con le risorse idriche inquinate, con l'aumento delle polveri sottili e con meno alberi che producono ossigeno pensiamo davvero di poter sopravvivere ancora a lungo.

Una risposta? Il biologico

La risposta a un problema che possiamo definire enorme senza mezzi termini non è rinunciare per sempre alla carne, ma imparare a consumarne meno e a farlo meglio. D'altronde i nostri nonni erano abituati a mangiarla una o due volte a settimana, non tutti i giorni. La dieta mediterranea di cui parlavamo prima prevede frutta e verdura in abbondanza, cereali integrali, legumi e solo in ultimo prodotti di origine animale.

Il position paper di ISDE solleva poi l'attenzione sul biologico. O meglio, sottolinea come questa contrapposizione tra intensivo e bio non abbia senso: "Il primo passaggio necessario sarebbe quello di ‘eliminare' le terminologie di ‘intensivo e biologico’ e legiferare in merito all’allevamento in senso lato, che dovrebbe rispondere a dei requisiti (BAT: migliori tecniche disponibili) massimi e rigorosi, in base alle caratteristiche oggi definite per il biologico e legiferate dalla UE, escludendo tutti gli altri appellativi e realtà in essere".

Nel 2022 entrerà in vigore il Regolamento europeo n. 848. Si teme, però, che non riuscirà a risolvere del tutto alcune delle contraddizioni che oggi minano la credibilità e la sicurezza di questo settore. La prima importante fragilità riguarda il meccanismo dei controlli, che oggi vengono svolti ogni anno dagli ispettori degli OdC (Organismi di Controllo): enti privati pagati dal produttore, anche se specificatamente formati sulle regole che deve seguire questo tipo di produzione. Le autorità competenti a vigilare sui controlli annuali sono agli assessorati all'agricoltura delle diverse Regioni e il Mipaaf.

Il primo passo è regolamentare i controlli, che devono essere svolti da enti terzi e neutrali

Altri accertamenti, sanitari e ambientali, sono poi svolti dai veterinari delle ASL e dal personale ARPAE, che però possono applicare solo i criteri previsti per tutti gli allevamenti e non quelli specifici per il settore biologico.

La soluzione quindi è un biologico che diventa la norma, regolamentato e controllato da enti terzi e neutrali. E, dal punto di vista del consumatore, una riduzione del consumo di carne e di prodotti processati. Potrai rispondere tutto questo la prossima volta che a una cena di famiglia ti chiederanno: "Ma davvero mangi l'hamburger vegano? Ma come ci riesci!"