
“Sono umana. E sono esausta”. Jacinda Ardern, Presidente del Consiglio della Nuova Zelanda ha annunciato le dimissioni dall’incarico, dopo cinque anni e mezzo di mandato. Dimissioni che non sono state provocate da una crisi politica, ma da una scelta personale e dalla consapevolezza di una donna e madre che dichiara di non avere più le energie per proseguire il suo mandato, come vorrebbe.
“Noi diamo tutto quello che possiamo per tutto il tempo che possiamo e poi arriva il momento – ha dichiarato Ardern in conferenza stampa -. E per me quel momento è arrivato. Semplicemente, non ho più le energie per altri quattro anni".
Jacinda Ardern, 42 anni, è stata anche la seconda leader politica nella storia moderna a partorire mentre era in carica, dopo la prima ministra pachistana Benazir Bhutto nel 1990 e, pochi mesi dopo, l’immagine che la ritraeva mentre accudiva la figlia neonata durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, ha fatto il giro del mondo.
Nelle parole della Ardern devono essersi riconosciute molte madri lavoratrici, quelle che vengono chiamate "equilibriste" per come riescono a far conciliare la vita professionale con quella famigliare. Quelle donne dilaniate dai sensi di colpa per il fatto di non riuscire a trascorrere abbastanza tempo con i figli. qQuelle che escono la mattina letteralmente correndo per accompagnare i figli a scuola e non arrivare in ritardo in ufficio. Quelle che fanno gli scongiuri perché i figli godano sempre di buona salute per non doversi assentare al lavoro. Quelle che sono consapevoli di perdersi molto della vita dei figli a causa del proprio lavoro.
Non sono premier, ma sono donne che nella maggior parte dei casi trascorrono dalle dieci alle dodici ore fuori casa se lavorano a tempo pieno. Arriva un momento che non riescono più a fare le "equilibriste" e decidono di mollare.
Secondo l’annuale Relazione sulle dimissioni delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, pubblicata nel 2021 dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro, almeno il 71,5 per cento delle dimissioni da parte delle madri lavoratrici è volontaria, e tra le motivazioni indicate per tale scelta c’è la difficoltà di conciliare il lavoro con la cura dei figli (34%).
Non sorprendono le conclusioni a cui è arrivato uno studio pubblicato su Labour Economics, intitolato "The impact of working conditions on mental health: Novel evidente from the UK”, che ha indagato lo stato della salute mentale e del benessere individuale in base alle condizioni di lavoro.
Lo studio ha dimostrato come nel momento in cui si riduce la possibilità di mettere in campo le proprie competenze ed esperienze, o manca la flessibilità nella gestione di orari e compiti, non è raro si presentino casi di depressione, ansia e burnout. Non solo. I ricercatori hanno specificato che ad esserne più colpite sono le donne, in particolare nella fascia di età compresa tra i 35 e i 50 anni.
Va tuttavia fatta una precisazione, sulla differenza tra stress e burnout. Quando nonostante le difficoltà sul lavoro, si mantiene un’idea di controllo su quello che si sta facendo, con una qualche prospettiva di risoluzione, si può parlare di stress; diversamente, il burnout dà proprio la sensazione di essere esauriti emotivamente, completamente prosciugati e come incapaci di immaginare una soluzione qualsiasi al disagio provato.
Ogni anno, il 10 ottobre, viene celebrata la Giornata della salute mentale, cona l’obiettivo di aumentare la consapevolezza sui problemi di natura psicologica, proprio come il burnout mentale.
È fondamentale che se ne parli, ma perché allora non fare una riflessione più profonda anche sulla Giornata internazionale della parità retributiva per abbattere il divario di genere nelle retribuzioni, o sulla Giornata internazionale della donna, per ricordare le conquiste sociali, economiche e politiche fatte, ma anche le discriminazioni di cui le donne sono state oggetto; o ancora, sulla Festa dei lavoratori, per ricordare le lotte portate avanti per i diritti dei lavoratori, oltretutto nate inizialmente per una riduzione della giornata lavorativa.
Siamo stati tanto bravi da dare un nome a un disagio psicologico, ma non siamo stati altrettanto bravi nel risolvere il problema alla base, e gestirne solo i sintomi è pericoloso.