Rifugiati o migranti? Cosa prevede l’Italia per chi fugge a causa della crisi climatica

Non solo siccità e alluvioni costringono le persone a lasciare il luogo in cui sono nate. In Mongolia è stato il freddo estremo a scatenare le migrazioni verso la capitale, Ulan Bator, che negli ultimi 10 anni ha visto raddoppiare il numero di abitanti e ingrossare le fila degli slums. Dalle baraccopoli, dove le condizioni di vita sono insostenibili, i migranti non possono far altro che ripartire. Ed è allora che superano i confini nazionali e, tra le varie mete, raggiungono anche l’Italia.
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Intervista a Anna Brambilla, avvocato esperta in migrazioni climatiche, e Lorenzo Orioli, funzionario tecnico di Aics (Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo), specializzato in ambiente e migrazioni ambientali

Entro il 2050, circa 216 milioni di persone saranno costrette a partire dal luogo in cui abitano a causa della crisi climatica. Già oggi alluvioni, siccità e altri eventi estremi sono all'origine di flussi migratori sempre più intensi. Eppure, questi migranti non esistono: l'ordinamento internazionale, semplicemente, non li contempla.

In questa rubrica proveremo a capire meglio chi siano i migranti ambientali, cosa li spinga a lasciare il proprio Paese e soprattutto quali strumenti esistano, o dovrebbero esistere, per gestire questi flussi che in buona parte interessano anche l'Italia. Nel primo numero, abbiamo parlato di inondazioni e terre che scompaiono, come sta accadendo in Bangladesh. Nel secondo numero, abbiamo indagato il legame tra la mancanza d'acqua e l'aumento di guerre, rivolte e terrorismo. In questo terzo numero cercheremo di capire cosa accada a queste persone una volta che arrivano in Italia.

Rifugiati o migranti?

Queste persone che scappano da un ambiente sempre più ostile, spesso aggravato da politiche inadeguate, come dovrebbero essere chiamate? Per diverso tempo, l'etichetta più adatta è sembrata essere "rifugiato ambientale". In mancanza di un riconoscimento ufficiale, si cercava un appiglio giuridico nella Convenzione di Ginevra che definisce rifugiato chi attraversa una frontiera internazionale per il timore di essere perseguitato per motivi che vanno dalla "razza", "all'opinione politica". Ma nel documento non si fa alcun riferimento a fattori ambientali o climatici. Oltre al fatto che la maggior parte di queste persone non supera i confini del proprio Paese.

"Il nocciolo della questione è che non vi sono condizioni di tipo ambientale giuridicamente riconosciute come fonti di pericolo per la vita di un individuo o di un gruppo. Per questo motivo non esiste la categoria di rifugiato ambientale", spiega Lorenzo Orioli, funzionario tecnico di Aics (Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo), specializzato in ambiente e migrazioni ambientali.

Di conseguenza, abbiamo iniziato a chiamarli migranti. Ma a livello di ordinamento, i problemi non si sono risolti. "Non c'era nessuna normativa internazionale, nè una giurisprudenza che facesse riferimento al migrante ambientale", prosegue Orioli. Allo stesso tempo "il passaggio da un termine all'altro ammorbidisce l'aspetto costrittivo dello scappare. Il migrante è una persona che potenzialmente ha una possibilità di scelta tra partire o restare. La responsabilità dello spostamento, quindi, è la sua".

"Non c'era nessuna normativa internazionale, nè una giurisprudenza che facesse riferimento al migrante ambientale"

Eppure, la letteratura inizia a esserci. Uno studio della Columbia University di New York, pubblicato su Science nel 2017, sottolineava come l'aumento dei richiedenti asilo provenienti da un determinato Paese fosse proporzionale all'incremento delle temperature in quell'area.

Gli sfollati interni a causa di eventi legati ai cambiamenti climatici rappresentano il 75,8% del totale. Nel 2020 sono stati 30,7 milioni, contro i 9,7 milioni provocati da guerre e conflitti. I dati raccolti da Openpolis mostrano come la prima causa di movimento siano gli alluvioni e le inondanzioni e, non a caso, il secondo Paese interessato dal fenomeno è l'India, subito dopo la Cina. Pakistan e Bangladesh si trovano rispettivamente al quarto e al quinto posto.

E se il problema è il freddo?

Tra le conseguenze del riscaldamento globale, ce n'è una che sembra paradossale: il grande freddo. In alcune aree della Terra, gli eventi si sono estremizzati a tal punto che a estati aride e secche fanno seguito improvvise tempeste di neve e temperature così rigide da rendere impossibile la vita. Accade, ad esempio, in Mongolia, dove lo dzud, un fenomeno atmosferico che di norma dovrebbe verificarsi una volta ogni 8 anni, è diventato sempre più frequente.

Nel 2010 sono morti oltre 3 milioni di animali tra capre, yak, pecore e cavalli: il termometro non riusciva a superare i -30°C e il fieno era impossibile da raggiungere, sotto una coltre ghiacciata spessa 40 centimetri. Le violente nevicate avevano cancellato le piste solitamente battute dai pastori nomadi, che in Mongolia rappresentano circa il 10% della popolazione, lasciando isolati gli animali, ma anche i ragazzini mandati in città per frequentare la scuola. Con la perdita della loro unica fonte di sostentamento, le famiglie hanno inziato a migrare. Intere regioni del nord ovest, abitate dalla minoranza kazaka, ormai rischiano lo spopolamento.

La capitale Ulan Bator, invece, ha raddoppiato il numero di abitanti in soli 10 anni, arrivando a ospitare più di un terzo di tutta la popolazione della Mongolia. Ma sempre negli slums.

Alessandro Grassani era partito proprio dalla storia di tre famiglie di pastori mongoli per raccontare le migrazioni ambientali, di cui nel 2011 nemmeno si parlava. Interi gruppi di pecore morte nella neve, uomini e donne che trascinano animali deceduti, iurte (le tende tipiche delle steppe asiatiche) piantate a due passi dai grattacieli vengono ritratti negli scatti del fotografo. "Sono famiglie strappate al proprio contesto naturale e costrette a vivere in un luogo che non gli appartiene".

Ganbaatar Badarch, ad esempio, all'epoca aveva 28 anni ed era appena arrivato a Ulan Bator dalla provincia di Gobi-Altai, dopo aver perso tutte e 300 le sue pecore. Erdene Tuya, invece, era originaria della provincia di Bulgan. Lo dzud aveva dimezzato il suo gregge e ogni mattina doveva raccogliere gli animali morti durante la notte. Piano piano si stava avvicinando alla capitale, in cerca di temperature più miti. "Mi aveva molto colpito la storia di questa donna – ricorda Grassani. – Probabilmente oggi vive in una baraccopoli come tutti gli altri. Nella mente di contadini, allevatori e pastori costretti a spostarsi, la città è un luogo di migrazione ideale". Ma quando si scontrano con un rifiuto e condizioni di vita insostenibili, devono ripartire. Ed è a quel punto che diventa necessario oltrepassare i confini nazionali.

Cosa trovano quando arrivano in Italia

Sahel, Bangladesh, Iran, Mongolia. Nonostante i migranti climatici stiano diventando la categoria più numerosa, quando arrivano in Italia faticano a ottenere riconoscimento in quanto tali.

La forma di protezione prevista oggi è la cosiddetta "speciale" che, grazie alle modifiche introdotte dal governo Conte bis nel 2020, si avvicina alla protezione umanitaria, eliminata quattro anni fa dal decreto Salvini. Viene dunque riconosciuta anche a chi non può tornare nel proprio Paese d'origine a causa di "gravi calamità naturali o altri gravi fattori locali ostativi ad un rimpatrio in dignità e in sicurezza".

Se invece si sta scappando da guerre e conflitti che mettono in pericolo la propria vita o, ancora, si rischia di subire tortura o una condanna a morte dal proprio Stato, si ha diritto alla protezione sussidiaria. La differenza è che la seconda dura cinque anni, mentre la prima, di prassi, viene garantita per due. Rinnovabili. Ma non è questo il problema principale.

I documenti vengono rilasciati dalle Commissioni Territoriali. Organi che, per farla breve, hanno il compito di capire per quale motivo una persona sia arrivata in Italia. Sono loro che devono intercettare l'eventuale presenza della variante climatica nella storia del migrante. "I giudici hanno imparato a riconoscere eventi improvvisi, ad esempio alluvioni e inondazioni, come fattori climatici per lo spostamento – spiega l'avvocato Anna Brambilla, che collabora con Argis (Associazione di Ricerca per la Governance dell'Impresa Sociale) e si occupa di migranti climatici dal 2017. – Sono episodi che emergono anche casualmente dai racconti delle persone stesse, soprattutto da chi proviene dal Bangladesh. Più complicato invece far emergere le storie di chi lascia il Paese a causa di eventi a lenta insorgenza, come la siccità".

Una persona che si presenta di fronte alla Commissione può pensare che la desertificazione che avanza non sia importante, o non abbastanza rilevante, ai fini di ottenere la protezione. Dunque, nemmeno ne parla. "I componenti delle Commissioni dovrebbero ricevere una formazione specifica che li renda in grado di porre le domande giuste", obietta Brambilla.

Nel 2021, la sentenza n. 5022 della Cassazione ha introdotto un elemento importante. Riprendendo le osservazioni del Comitato ONU a proposito del caso di Ioane Teitiota (ne parlavamo nel primo numero di questa rubrica), ha accolto il ricorso di un cittadino originario del delta del Niger, un'area sottoposta a un grave dissesto ambientale a causa delle attività delle compagnie petrolifere. La Corte ha riconosciuto che la situazione di pericolo non dipendeva solo dall'ipotesi di un conflitto armato, che tra l'altro ancora non si stava verificando, ma dalle condizioni generali che ostacolavano il godimento dei diritti fondamentali dell'individuo.

"Vengono menzionati i ‘fattori antropici' e la ‘violenza generalizzata'. Sembrava quasi che si potesse arrivare al passo successivo, ovvero al riconoscimento della protezione sussidiaria – commenta Brambilla. – Invece alla fine la Cassazione si è assestata sulla protezione speciale. È un esempio di come i giudici scelgano la motivazione più semplice". Violenza generalizzata può essere anche, ad esempio, la distruzione di abitazioni, infrastrutture e raccolti da parte delle alluvioni. In alcuni Paesi, come il Bangladesh, "la situazione climatica disastrosa è accentuata dall'omissione delle autorità e da problemi di corruzione interni alla classe dirigente. Ma i giudici tendono a non prendere in considerazione questi fattori e a concentrarsi solo sugli eventi estremi in sè".

Nel 2021, l'81% delle richieste presentate da migranti bangladesi è stato rigettato

E se non emergono, o non vengono ritenuti sufficienti allo scopo di ottenere una forma di protezione, scatta il rifiuto. Secondo i dati del Ministero dell'Interno, nel 2021, l'81% delle richieste presentate da migranti bangladesi è stato rigettato. E percentuali simili si trovano anche per il Pakistan. Nemmeno gli alluvioni, insomma, possono bastare.

"La principale difficoltà che incontra un migrante quando arriva in Italia è proprio il riconoscimento del suo status – conferma Nouhoum Traorè. – Ma senza quel documento non potrà essere un valore aggiunto alla società italiana. Rimarrà in Italia, perché nel suo Paese non può tornare e in Francia lo respingono. Diventa un clandestino e a quel punto gli si spalanca la strada del lavoro nero, senza dignità e senza la possibilità di pagare le tasse. Ma se lo Stato facilita il suo inserimento nel mondo del lavoro, l'integrazione verrà da sè. Perché è dove abiti e dove lavori che è la tua vita, non nel luogo da cui provieni".

Nel prossimo e ultimo numero proveremo a capire quali soluzioni esistano nei confronti di un fenomeno dalle dimensioni così vaste che non potrà certo essere gestito attraverso muri e porti chiusi.

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Sono Laureata in Lingue e letterature straniere e ho frequentato la Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. Mi occupo principalmente altro…