Migranti ambientali, le soluzioni esistono (e non sono muri o porti chiusi)

Dal riconoscimento dello status giuridico all’attuazione di una vera giustizia climatica, le soluzioni per affrontare al meglio le migrazioni ambientali esistono. Ma a un fenomeno così complesso non si può certo dare risposte semplici.
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216 milioni di persone non si fermano costruendo un muro. E nemmeno chiudendo un cancello o sbarrando una porta. Stiamo parlando di migliaia di esseri umani che ogni giorno mettono in gioco la propria vita per scavalcare quella barriera o superare un tratto di mare a bordo di imbarcazioni pericolanti. Non possiamo affrontare un fenomeno nuovo con soluzioni vecchie e che si sono già dimostrate fallimentari, oltre che contro i diritti umani.

In questa rubrica proveremo a capire meglio chi siano i migranti ambientali, cosa li spinga a lasciare il proprio Paese e soprattutto quali strumenti esistano, o dovrebbero esistere, per gestire questi flussi che in buona parte interessano anche l'Italia. Nel primo numero, abbiamo parlato di inondazioni e terre che scompaiono, come sta accadendo in Bangladesh. Nel secondo numero, abbiamo indagato il legame tra la mancanza d'acqua e l'aumento di guerre, rivolte e terrorismo. Nel terzo numero, abbiamo cercato di capire cosa accada a queste persone una volta che arrivano in Italia. In questo quarto numero parleremo invece delle possibili soluzioni che esistono per affrontare, gestire e accogliere al meglio flussi che diventeranno sempre più imponenti.

Bee my Job

Che i temi ambientali siano centrali nelle migrazioni, ma che spesso rimangono taciuti, ne è convinta anche Ilaria Leccardi, di Cambalanche. "Un ragazzo nigeriano che abbiamo incontrato poco tempo fa ci aveva raccontato di essere scappato dal suo Paese per motivi politici – ricorda. – Ma a mano a mano che proseguiva nel discorso è emerso come nell'area del Delta del Niger sia sempre più difficile trovare terreni ancora coltivabili. I giacimenti petroliferi stanno inquinando l'acqua, devastando flora e fauna, rendendo la vita impossibile".

Cambalanche è un'associazione di promozione sociale con sede ad Alessandria, che si occupa di accoglienza e assistenza di richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale. Negli scorsi mesi ha provato a dare un volto alle migrazioni climatiche attraverso la mostra Name Climate Change, nella quale 20 persone hanno prestato la propria faccia per raccontare le loro storie e l'impatto della crisi climatica nella loro quotidianità.

Azam Bahrami per la mostra Name Climate Change. Qui abbiamo raccontato la sua storia. Credits photo: APS Cambalanche

Da Cambalanche è partito anche il percorso di Abdul Sane in Italia. Sane ha fatto parte, prima come studente poi come formatore, di Bee my Job, un progetto di apicoltura sociale nato nel 2015. Di anno in anno, l'iniziativa ha raccolto finanziamenti da diverse realtà, tra cui l'UNHCR, ed è arrivata a formare 15 apicoltori per ogni edizione. "L'apicoltura – spiega Leccardi – è un settore che permette di ottenere le conoscenze di base nel giro di poche settimane. Abbiamo dovuto costruire un percorso intensivo perché, purtroppo, è difficile che queste persone si fermino a lungo in un uno stesso luogo. Si spostano dove trovano lavoro, ad esempio nelle campagne, dove la paga è bassa ma è sicura".

Lo scopo di Bee my Job non è solo quello di insegnare un lavoro, ma di inserire in una rete di contatti chi arriva per la prima volta nel nostro Paese. Il cuore del progetto si trova nel Polo Agricolo Sociale, situato in un quartiere periferico della città. Al suo interno, 30 arnie per fini didattici e un orto dove imparare i primi rudimenti dell'orticoltura. "Sviluppiamo anche attività sul territorio e per il territorio. Questo Polo poi negli anni è diventato un luogo di incontro". Una volta terminato il corso, i neo apicoltori possono avere accesso più facilmente a contratti regolari offerti dalle aziende della zona e integrarsi rapidamente nella nostra società.

È un cerchio che si chiude. Persone costrette ad andarsene dalla propria terra, diventata ormai invivibile, recuperano un nuovo contatto con la natura che gli permette di rimanere nel Paese che li ha accolti. "Le api sono una metafora della società che vorremmo. Il nostro slogan è: per creare valore bisogna lasciare spazio alle contaminazioni. Come le api, che devono volare di fiore in fiore per garantire la riproduzione delle piante. Le migrazioni, il contatto tra le persone, l'integrazione, l'intreccio dei percorsi non possono che creare qualcosa di buono". Bee my Job è una delle possibili soluzioni che possiamo offrire per gestrire i flussi migratori che ci stanno raggiungendo.

Le possibili soluzioni

216 milioni. Come se gli abitanti di Tokyo, Mumbai, Shangai, Pechino e delle altre 6 città più popolose del mondo si spostassero all'unisono per cercare un nuovo posto in cui stabilirsi. Una marea umana immensa che, certo, non arriverà tutta insieme. La maggior parte di loro rimarrà all'interno dei confini nazionali, finché sarà possibile. Dopodiché partirà di nuovo e questa volta verrà a bussare alle nostre porte. Come risponderemo?

Ad oggi, la nostra prima opzione è la paura. Paura sulla quale marcia la politica dei porti chiusi e dei muri. Tra India e Bangladesh, un muro di oltre 4mila chilometri costeggia il quinto confine più lungo al mondo. Allo stesso modo, il Messico è diviso dagli Stati Uniti: gli americani lo chiamano "il muro di Tijuana", i messicani "il muro della vergogna". Due lunghe barriere di filo spinato circondano pure Ceuta e Melilla, due città autonome spagnole situate in Marocco. Ogni giorno, centinaia di persone provano a superare pareti altissime e lunghi tratti di mare alla ricerca di un futuro. Sono disposte a mettere in gioco la loro stessa vita. Pensiamo davvero di poter fermare interi popoli?

Siccità, inondazioni e freddo estremo sono causati dal cambiamento climatico. Cambiamento climatico che abbiamo provocato noi

Siccità, inondazioni, freddo estremo. Sono tutti eventi causati dal cambiamento climatico. Cambiamento climatico che abbiamo provocato noi, i Paesi ricchi e industrializzati. Abbiamo imposto un sistema di produzione e consumo basato sullo sfruttamento illimitato di risorse limitate. Nel 2008, gli Stati Uniti sono arrivati a produrre più di 5.700 tonnellate di CO2, la Germania 830 e l'Italia quasi 470. La Cina, oggi, raggiunge le 12mila tonnellate di CO2 all'anno. Sai quanta anidride carbonica emette il Bangladesh? 106 tonnellate. La Nigeria, colonizzata dalle multinazionali che hanno fame di petrolio, 127 tonnellate. Il Senegal 12 tonnellate e il Mali non arriva nemmeno a 6. Una differenza che non ha bisogno di commenti.

Nouhoum Traorè per la mostra Name Climate Change. Qui abbiamo raccontato la sua storia. Credits photo: APS Cambalanche

Se vogliamo davvero gestire un fenomeno più grande noi, la risposta dovrà essere complessa e articolata. Qualche esempio:

  • Riconoscimento giuridico dello status di migrante climatico. "Concedere protezione da parte dei Paesi industrializzati, gli stessi attori che hanno contribuito a generare quel fenomeno, è una forma di deresponsabilizzazione", fa notare l'avvocato Anna Brambilla. Inoltre, l'esistenza di una categoria precisa favorirebbe il processo di riconoscimento del fattore ambientale da parte delle Commissioni territoriali.
  • Sviluppare un sistema di valorizzazione delle rimesse. È il denaro che il migrante invia alla famiglia rimasta nel Paese d'origine. In alcuni stati, come il Kribati, costituiscono fino al 10% del PIL. Secondo alcuni studi, possono avere un impatto molto positivo sul Paese beneficiario: a un 10% di incremento nel livello di rimesse ufficiali pro-capite corriponde una diminuzione media del 3,5% della popolazione che vive in condizioni di povertà. Andrebbero quindi canalizzate il più possibile verso interventi di mitigazione e sviluppo.
  • Assumersi un impegno serio di riduzione delle emissioni. Il loss and damage, il fondo per risarcire i Paesi poveri delle perdite e dei danni causati dalle conseguenze della crisi climatica, è un ottimo risultato della Cop27, ma al momento esiste solo sulla carta e non si sa quando gli Stati inizieranno davvero a versare il denaro. Per il resto, all'ultima Conferenza ONU sul clima non è stato raggiunto alcun accordo sul taglio immediato delle emissioni climalteranti che, anzi, rischiano di aumentare ancora del 10,6% entro il 2030.
  • Giustizia climatica. Un concetto che racchiude diversi aspetti, tra cui quello intergenerazionale. Per riassumere, dovrebbe farsi carico di rispondere alla crisi climatica e pagare i costi delle sue conseguenze chi ha inquinato di più. E quindi i Paesi ricchi nei confronti di quelli poveri, ma anche le precedenti generazioni nei confronti delle più giovani e delle future.

E se invece ignorassimo le sorti del Pianeta? Potremmo. Ma il cambiamento climatico sta diventando una realtà quotidiana anche in Italia. La siccità del 2022 è stata la peggiore degli ultimi 500 anni. Da gennaio a luglio si sono verificati 132 eventi estremi, in soli 7 mesi. Ci sono stati morti, feriti, sfollati.

"Magari ora c'è chi pensa di essere più furbo, perché sta godendo delle rese delle emissioni – fa notare Nouhoum Traorè, – ma una volta che avrà inquinato il mondo avrà comunque un prezzo da pagare. La lotta deve essere unanime, generale. Non esiste un'altra via".

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Sono Laureata in Lingue e letterature straniere e ho frequentato la Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. Mi occupo principalmente altro…