Migranti ambientali: la crisi climatica dietro a guerre, rivolte e terrorismo

Il cambiamento climatico può inasprire o addirittura scatenare guerre e rivolte. C’è anche la mancanza d’acqua, ad esempio, dietro alle manifestazioni in Iran degli ultimi mesi. Persino il terrorismo viene alimentato da siccità e carestie.
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Intervista a Nouhoum Traorè, ricercatore in Economia dell'Ambiente presso il Politecnico di Torino, e Azam Bahrani ricercatrice e attivista iraniana per i diritti umani e l'ambiente

Le manifestazioni in Iran di questi mesi sono state alimentate anche dalla crisi climatica che, tra i vari problemi che provoca, amplifica anche il divario di genere. Ma non è l'unico esempio di come i fattori ambientali agitino il mondo. La Siria, allo scoppio della guerra, veniva dalla peggiore siccità dell'ultimo mezzo secolo.

In questa rubrica proveremo a capire meglio chi siano i migranti ambientali, cosa li spinga a lasciare il proprio Paese e soprattutto quali strumenti esistano, o dovrebbero esistere, per gestire questi flussi che in buona parte interessano anche l'Italia. Nel primo numero, abbiamo parlato di inondazioni e terre che scompaiono, come sta accadendo in Bangladesh. In questo secondo numero, indagheremo sul legame tra la mancanza d'acqua e l'aumento di guerre, rivolte e terrorismo.

Nel Sahel è finita l'acqua

Nel 2021 sono sbarcate in Italia circa 60mila persone. A novembre di quest'anno, eravamo già a 93mila. La prima area di provenienza è il Sahel, una fascia di territorio dell'Africa sub-sahariana che comprende 12 stati tra cui il Mali, il Senegal, il Niger, il Burkina Faso, la Nigeria e il Ciad. Sei milioni di chilometri quadrati che si stanno trasformando in un deserto. Secondo uno studio del Cnr pubblicato su Environmental Research, l'80% dei flussi che raggiungono l'Italia è scatenato da innalzamento delle temperature, siccità e carestie. In altre parole, dalla crisi climatica.

"Non ci si sveglia un giorno e si decide tutti insieme di partire – spiega Nouhoum Traorè, ricercatore di Economia dell'Ambiente al Politecnico di Torino e originario del Mali. – È un movimento graduale. Si sposta chi vive nelle zone che per prime hanno dovuto fronteggiare la siccità, alla ricerca di terreni più umidi e ancora fertili. In Africa, la principale attività economica è l'agricoltura ed è anche la prima fonte di cibo per le famiglie".

I primi a migrare, come quasi sempre accade, sono stati gli uomini giovani. Sono rimasti nel continente, lavorando in Libia o in Egitto e inviando denaro a donne, anziani e bambini rimasti a casa. Nel 2011, però, è esplosa la Primavera araba. Chi si trovava in Libia non poteva tornare nel proprio Paese dove ormai c'erano solo desertificazione e siccità. "Non hanno avuto altra alternativa che cercare un nuovo posto dove andare. Tanti di loro sono arrivati in Italia e sono stati chiamati migranti economici".

Dagli anni '70 a oggi, il bacino del Lago Ciad si è ristretto del 95%

Negli anni '70, quando si è verificata la prima grave carestia, il Sahel ospitava il quarto lago più esteso dell'Africa, il Lago Ciad, al confine tra Ciad, Nigeria, Niger e Camerun. Forniva abitualmente risorse a 40-50 milioni di residenti. L'arrivo massiccio di persone in cerca di terreni ancora coltivabili e la pesca sempre più intensiva hanno creato una pressione insostenibile per gli ecosistemi naturali. "In Africa il sistema agricolo non è industrializzato e per questo motivo si è diffusa la cultura dei figli. Attorno al lago il tasso di crescita della popolazione è tra i più alti di tutto il Sahel".

Le precipitazioni sono diventate sempre più scarse e oggi il bacino idrico si è ridotto del 95%. Ma i quattro governi che ne condividono le acque non sembrano curarsene. "In assenza di uno Stato che faccia rispettare la legge, le persone hanno imposto la propria. I più forti si sono accaparrati le terre fertili che emergevano a mano a mano che il lago si restringeva e i gruppi terroristici hanno fatto leva su povertà e frustrazione per reclutare nuovi membri".

Cambiamento climatico, terrorismo, conflitti…

Boko Haram, Daesh (o ISIS) e altri gruppi terroristici proliferano anche grazie ai problemi ambientali. Non solo. Dal 2003 a oggi sono tante le guerre, i conflitti e le rivolte scatenate, o inasprite, dalla crisi climatica. Anche l'OSCE nel 2018 ha riconosciuto come le variazioni climatiche e i fattori ambientali fossero una minaccia per la sicurezza. La narrazione di questi eventi, però, è completamente diversa e spesso è costruita dai governi stessi per compiacere i partner commerciali. "Agli occidentali si racconta che i musulmani vogliono cacciare i cristiani – spiega Traorè, – mentre agli arabi si fa credere che il governo non voglia accettare l'Islam. Il vero problema? Non ci sono abbastanza terreni né acqua per tutti".

L'esempio forse più lampante è il conflitto tra pastori fulani, di religione musulmana, e agricoltori, cristiani, che da più di 15 anni scuote le regioni centrali della Nigeria. "Non ha veramente niente a che fare con la religioneaveva commentato nel gennaio 2018 il cardinale John Olorunfemi Onaiyekan, arciverscovo della capitale Abuja, in seguito a una serie di attenati. – La ragione principale è il clima. Tutta la regione del nord del Paese si è inaridita e dove i pastori avevano i loro pascoli non c’è più erba da mangiare e allora si spostano sempre al sud. E portando gli animali al sud incontrano i contadini che hanno i loro campi e gli animali entrano nei campi, mangiano le piante dei contadini e così cominciano i problemi".

Intanto i governi non riescono più a controllare l'intero territorio nazionale e lasciano spazio ai gruppi jihadisti. Il terrorismo, qui, si nutre della crisi alimentare, sanitaria e anche scolastica. "L'estremismo viene motivato dalla religione, ma i Paesi del Sahel sono a maggioranza musulmana – fa notare Traorè. – Il Mali, ad esempio, oggi è il centro del terrorismo, ma la sua popolazione è per il 95% di fede islamica".

Tra le foto di Alessandro Grassani, ce n'è una scattata nel nord del Kenya, nella regione del Turkana. Si vedono tante croci di legno, 28 in tutto. Le persone che vi sono seppellite sono state uccise in una sola notte a colpi di fucile e macete. "I cambiamenti climatici hanno esasperato i conflitti che già esistevano tra le tribù di pastori che frequentano quelle terre. Avevo già lavorato in zone di guerra e visto diverse fosse comuni, ma quella era la prima causata dalla crisi climatica. È un'immagine che rende la violenza palpabile, vicino a te".

Secondo l'UNEP, il programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente, il 40% dei conflitti interni sono legati allo sfruttamento di risorse naturali. Il World Food Programme, poi, indica la guerra in Darfur come la prima legata al climate change: in una situazione politica complicata, l'avanzamento del Sahara che si registrava già nei primi anni 2000 è stata la scintilla che ha portato alle armi. Anche le rivolte delle Primavere Arabe, che hanno provocato un ingente flusso di migranti verso l'Europa, furono esarcebate da siccità e crisi alimentare. La Siria, ad esempio, veniva da quattro anni consecutivi senza piogge, l'episodio più grave dell'ultimo mezzo secolo. L'agricoltura era completamente in ginocchio.

…e rivolte

Il Paese dove questo paradigma diventa più evidente è l'Iran.

Il 70% del territorio nazionale è desertico o semi-desertico: Dasht-e Lut, il vasto deserto di sale che si estende nella parte sud-orientale, è considerato una delle distese più aride del Pianeta ed è famoso come luogo più caldo al mondo (la Nasa era arrivata a registrare 70,7 gradi centigradi). Eliminate città e montagne, solo il 10-12% del suolo risulta effettivamente coltivabile. Oggi è in corso una siccità gravissima, che ha investito tutto il Medio Oriente e che viene considerata la peggiore degli ultimi 50 anni. L'acqua, qui, è davvero l'oro blu. E in Iran chi controlla l'acqua, detiene il potere.

Lo sanno bene i pasdaran (o Sepāh), un ramo dell'esercito nazionale vicino al governo e ad Ali Khamenei, la Guida Suprema. In soli 40 anni hanno costruito 70 dighe sui fiumi più importanti del Paese e imposto una gestione militarizzata delle risorse idriche. Sono loro a decidere chi le possa ricevere e chi no.

"Nelle manifestazioni di questi mesi stanno scendendo in piazza soprattutto ragazzi, alcuni di loro hanno meno di 15 anni. Lottano per il loro futuro, perché sanno bene che con queste politiche di sfruttamento delle risorse non potranno averne uno. Come si può andare avanti se in alcune città manca persino l'acqua per lavarsi? Come si può fare affidamento su un governo totalitario e una classe dirigente incapace?"

Azam Bahrani vive in Italia da una decina d'anni. È arrivata a bordo di uno dei tanti barconi sui quali è costretta a viaggiare la maggior parte dei migranti che raggiungono le nostre coste. Non avrebbe potuto entrare legalmente nel nostro Paese perché quando è scappata dall'Iran non aveva con sè i documenti. Carta d'identità e passaporto le erano stati ritirati al momento dell'arresto e della successiva condanna come "pericolo per la sicurezza nazionale". Bahrani è un pericolo perché è un'attivista. Combatte per i diritti delle donne, i diritti civili e la difesa dell'ambiente. In Iran queste tre istanze si intrecciano e si integrano.

Un buon punto di partenza per capire meglio la questione è Zagros, la catena montuosa che si estende lungo tutto il nord del Paese arrivando fino al confine con l'Iraq. Il 40% di tutte le risorse idriche sotterranee si concentra qui e sempre da questi monti nascono i 5 fiumi più importanti di tutta la nazione. Oggi l'area è sotto il controllo dell'esercito che, tra le altre cose, ha distrutto le famose foreste di castani.

In questa regione si trova anche la fonte dello Zaiandè, un fiume che scorre per 400 chilometri nel centro dell'Iran, attraversando Esfahan, una città da quasi 2 milioni di abitanti, e arrivando a sfociare nel lago salato di Gavkhouni. A differenza della maggior parte degli altri corsi d'acqua, lo Zaiandè non ha un flusso stagionale ma è in grado di garantirlo tutto l'anno. Ora, il suo letto è completamente asciutto. Le dighe bloccano la corrente prima che raggiunga la città e quando il vento soffia, dal fondo del lago si solleva la sabbia che va a peggiorare la desertificazione. "Gli agricoltori hanno protestato perché non potevano più irrigare i campi, ma l'esercito ha picchiato e arrestato i manifestanti. In segno di solidarietà, le persone postavano foto con una benda sul viso perché i soldati sparavano mirando agli occhi".

Il 2021 è stato l'anno delle proteste per l'acqua, al grido di #KhuzestanIsThirsty ("il Khuzestan ha sete"). Il Khuzestan è una delle regioni più ricche dell'Iran e detiene l'80% di tutte le riserve petrolifere nazionali. Ma le cose hanno iniziato a cambiare con le politiche di autosufficienza alimentare, basate su un'economia di resitenza, che il governo ha varato in risposta alle sanzioni Occidentali. Oggi, il 90% dell'acqua è destinato all'agricoltura e, dal momento che non piove più, bisogna scavare pozzi sempre più profondi per trovarla. L'Iran è il quarto Paese al mondo per sfruttamento delle risorse idriche sotterranee e sono già arrivati a impiegare l'85% di tutta l'acqua presente nelle falde.

L'Iran è il quarto Paese al mondo per sfruttamento delle acque sotterranee. È già arrivato a utilizzarne l'85%

Metà delle nuove dighe volute dai pasdaran si concentra proprio nel Khuzestan. Il capoluogo, Ahwaz, ha ottenuto più volte il triste primato di città più inquinata del mondo. Non è un caso dunque che i più importanti movimenti ambientalisti indipendenti siano nati in questa regione. "Quasi il 99% delle persone se ne vuole andare, lo dimostrano i dati pubblicati dal Parlamento stesso".

La mancanza d'acqua ha diverse ripercussioni sulla vita della popolazione. La prima è sanitaria, anche perché la rete idroelettrica nazionale sta cedendo, dando luogo a numerosi blackout che mettono in ginocchio gli ospedali. La seconda è il dissesto idrogeologico che ormai ha raggiunto le grandi città. "Qualche settimana fa, un palazzo di 5 piani è crollato improvvisamente dentro a un enorme buco. E accade persino in alcuni quartieri di Teheran, la capitale".

Infine, l'impatto sociale: amplifica il divario di genere. "In Iran, il problema delle spose bambine spesso ha origine nella mancanza d'acqua. Le famiglie di contadini, costrette in povertà, acconsentono a dare in moglie la propria figlia minorenne in cambio di un compenso economico". E se anche non gli viene assegnato un marito subito, è molto difficile che le donne riescano a terminare gli studi. Chi è a corto di soldi, considera uno spreco pagare l'istruzione alle figlie femmine, che dovranno comunque rimanere in casa a badare ai bambini.

Le donne, però, diventano dirigenti economici della famiglia quando gli uomini partono in cerca di migliori condizioni di vita. E mentre la città rifiuta i secondi, emarginandoli e togliendogli ogni sicurezza, persino l'accesso alla sanità pubblica, le prime rimangono le uniche abitanti di villaggi svuotati. È una situazione molto comune, ad esempio, nelle province del Sistan e del Baluchistan.

Intanto, lo sviluppo sostenibile rimane un argomento tabù, mentre l'Agenda 2030, secondo Kamehini, va contro i dettami dell'Islam. Negli ultimi 14 anni, almeno 13 ambientalisti sono stati uccisi, tanti altri sono attualmente detenuti in carcere e lo scorso settembre sono iniziate le ennesime proteste.

Nel prossimo numero parleremo di un aspetto paradossale del riscaldamento globale: il freddo estremo che provoca in alcune aree della Terra e di come anche questo evento provochi migrazioni.

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Sono Laureata in Lingue e letterature straniere e ho frequentato la Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. Mi occupo principalmente altro…