Migranti ambientali: dove vai se il tuo Paese scompare?

Quando si parla di migranti, l’attenzione è focalizzata sul loro numero e sulle difficoltà di accoglienza e integrazione da parte del Paese d’arrivo, che nel nostro caso è l’Italia. Ma ci siamo chiesti come mai abbiano dovuto lasciare la loro terra d’origine? E soprattutto se, in quanto Paesi industrializzati e inquinanti, abbiamo una qualche responsabilità nella generazione di questi movimenti?
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"Certo che sono preoccupato! Ho vissuto il cambiamento climatico nel mio Paese e ora lo vedo avanzare anche qui". Abdul Sane ha 33 anni, è nato in Senegal e vive in Italia dal 2015. Lavora come agricoltore in provincia di Alessandria, ma la sua vera passione è l'apicoltura, mestiere che ha imparato grazie al progetto Bee my Job dell'Associazione Cambalance. "Le api stanno diventando sempre meno. Abbiamo iniziato a notarlo quattro anni fa e ora stanno scomparendo a ritmi ancora più rapidi. Il 2021 è stato un anno particolarmente difficile".

Sane è originario di un villaggio vicino a Ziguinchor, nel sud del Paese. È l'area più verde del Senegal, attraversata dal fiume Casamance e dai suoi affluenti. Sulla cartina geografica si contrappone a un nord dove il deserto avanza inesorabilmente. Da circa una ventina d'anni, però, questi villaggi sono disabitati. Anche i genitori di Sane se ne sono andati, lo hanno raggiunto in Italia pochi mesi fa. Il motivo? Non c'è più acqua.

Alle scarse precipitazioni delle ultime stagioni, si è aggiunta la costruzione di una diga che ha sbarrato il fiume. Il progetto è stato commissionato da una grande azienda cinese, all'interno di una più ampia iniziativa di cooperazione economica e politica che Pechino sta portando avanti in tutto il continente africano. Il colonialismo del nuovo millennio. Le famiglie che abitavano nella zona, quasi tutte composte da agricoltori e allevatori, hanno dovuto fare i conti con un terreno che diventava sempre più arido e salinizzato. Il riso, alimento base della loro dieta, non cresceva più. L'unica soluzione è stata spostarsi.

Nel 2007, l'Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM) ha definito i migranti ambientali "persone o gruppi di persone che, principalmente per motivi di cambiamento improvviso o progressivo dell’ambiente che influisce sulle loro vite impattando in maniera negativa, sono obbligati a lasciare (o scelgono di lasciare) le proprie abitazioni abituali, temporaneamente o definitivamente, spostandosi all’interno del proprio Paese o all’estero". Abdul Sane, la sua famiglia e gli altri abitanti del villaggio rientrano in questa categoria.

I migranti ambientali, però, non esistono. Il diritto internazionale non li contempla e nell'ordinamento italiano mancano tutele ad hoc. Nel 2015 queste persone che non esistono hanno superato per numero i profughi di guerra. Ed entro il 2050, secondo i calcoli della Banca Mondiale, ci saranno 216 milioni di individui costretti a lasciare la propria zona d'origine a causa della crisi climatica.

Entro il 2050, 216 milioni di persone saranno costrette a migrare a causa della crisi climatica

Il cambiamento climatico è visto come un driver di movimento che spesso si somma, o inasprisce, fattori già esistenti come conflitti, povertà e crisi economiche. Non di rado, però, diventa la miccia stessa che innesca questi problemi. Il risultato è che trovare un migrante descritto come "climatico" o "ambientale" è molto difficile. Rientrerà piuttosto nel gruppo dei rifugiati di guerra o, nella maggior parte dei casi, nel magma indistinto dei migranti economici. Ma la differenza c'è: queste persone sono state costrette a spostarsi e non potranno fare ritorno al Paese d'origine, divenuto ormai invivibile.

C'era il cambiamento climatico dietro ai flussi che hanno interessato l'Italia nel 2011, poco dopo l'esplosione delle Primavere Arabe. E c'era anche la desertificazione dietro lo scoppio della guerra in Darfur, nel 2003.

I responsabili di tutto questo? Noi, i Paesi industrializzati, nonché maggiori emettitori di gas a effetto serra.

In questa rubrica proveremo a capire meglio chi siano i migranti ambientali, cosa li spinga a lasciare il proprio Paese e soprattutto quali strumenti esistano, o dovrebbero esistere, per gestire questi flussi che in buona parte interessano anche l'Italia. Nel primo numero, parleremo delle terre che già oggi stanno scomparendo a causa dell'innalzamento degli oceani.

Chi sono i migranti ambientali?

Trovare oggi l'arcipelago di Carteret su una mappa è complicato. Del gruppo di atolli, che porta il nome del navigatore britannico Philip Carteret, è rimasto meno di un chilometro quadrato. Il resto della terra è stato inghittito dall'Oceano Pacifico.

Nel 2008 il governo della Papua Nuova Guinea organizzò un'operazione di trasferimento degli ultimi 2mila abitanti delle isole nella ben più grande Bougainville, a un'ottantina di chilometri di distanza. Il finanziatore della missione era l'Unesco, che definì questa manciata di famiglie i primi profughi ambientali. Il progetto, però, fallì a causa della difficile convivenza con le popolazioni autoctone. I migranti di Carteret dovettero far ritorno alle proprie case, ormai immerse in un terreno paludoso.

I prossimi a rischio scomparsa saranno Tuvalu e il Kiribati, altri due arcipelaghi del Pacifico. Sul primo si erano accesi i riflettori durante la Cop26 di Glasgow: il ministro della Giustizia e degli Affari Esteri, Simon Kofe, aveva tenuto un discorso ufficiale immerso nell'acqua fino alle ginocchia. In quel luogo esatto, fino a pochi anni prima, c'era terreno asciutto.

Uno screenshot dell’arcipelago di Tuvalu da Google Maps. Si può vedere quanta porzione di terra è già stata sommersa dall’oceano Pacifico. Credits photo: Google Maps

Dalla Repubblica delle Kiribati proviene invece Ioane Teitiota che nel 2013 divenne il primo richiedente asilo climatico al mondo, presentando un ricorso a un tribunale della Nuova Zelanda che ne aveva ordinato il rimpatrio. La richiesta fu respinta, ma la vicenda segnò un punto di non ritorno: il Comitato ONU dovette riconoscere la situazione di dissesto ambientale delle isole e valutare se potesse rappresentare un pericolo per la vita di Teitiota.

Secondo l'IPCC, entro il 2100 il livello degli oceani e dei mari potrebbe innalzarsi di 40 centimetri. Ed è la migliore delle ipotesi. L'acqua non inghiottirà solo i piccoli gioielli del Pacifico. In Italia sono a rischio 38mila chilometri quadrati di coste. Ma a pagare il conto più salato, già oggi, sono Pakistan, India e Bangladesh.

Le peggiori inondazioni dell'ultimo secolo

Il Bangladesh conta 166 milioni di abitanti. La maggior parte di loro si concentra nelle grandi città e soprattutto a Dhaka, la capitale, un agglomerato urbano raggiunto ogni giorno da 2mila persone costrette ad abbandonare le zone costiere. Gli spostamenti massicci sono iniziati nel 2007, quando violenti piogge monsoniche hanno messo in ginocchio metà del territorio nazionale. Oggi, secondo l'OIM, il 70% degli abitanti di questa megalopoli è da considerarsi a tutti gli effetti rifugiato climatico.

L'80% di chi deve migrare a causa di un ambiente divenuto ostile rimane all'interno della propria nazione. Il motivo si può facilmente intuire: si cerca di rimanere a casa, in contatto con la propria cultura, la propria lingua, le proprie tradizioni. Si spera di essere accolti più facilmente. Invece si finisce per ingrossare le fila degli slums, le baraccopoli. Senza servizi igienici, senza energia elettrica, senza acqua. Si diventa un numero che si perde tra altri milioni di numeri. Gli ultimi del mondo.

L'80% dei migranti climatici rimane all'interno dei confini nazionali

Abdul Aziz aveva 17 anni quando si è trasferito a Dahka con la sua famiglia. Il villaggio dove vivevano, nel distretto di Chandpur, era stato spazzato via dalla piena di un fiume e ora si ritrovavano a lavorare 12 ore al giorno in una delle tante fabbriche tessili, dove si producono vestiti destinati alle grandi catene di fast fashion. Stipendio, 30 euro al mese. Aziz è stato ritratto nella sua baracca, con lo sguardo perso nel vuoto, da Alessandro Grassani, fotografo impegnato nel racconto di tematiche sociali, vincitore di numerosi premi e collaboratore di testate come l'Espresso e il New York Times. Tra il 2011 e il 2016 ha lavorato al progetto Environmental Migrants – The Last Illusions, dando un volto ai migranti climatici di Kenya, Haiti, Mongolia e, appunto, Bangladesh.

"Ero consapevole che in questo Paese le conseguenze dei cambiamenti climatici fossero ben visibili – ricorda, – ma non mi aspettavo una situazione di difficoltà così estrema. Ho visto villaggi completamente inondati, dove le persone vivevano immerse nell'acqua fino alle ginocchia per 8 mesi all'anno. Gli abitanti di Debnagar, una località all'incrocio tra due grandi fiumi, mi hanno raccontato che fino a 10 anni prima del mio arrivo il panorama era ben diverso".

Dieci anni è anche il tempo che, nella memoria di Maksud Rahman, corrisponde all'aumento di alluvioni e inondazioni. "Prima, questi fenomeni si verificavano una o al massimo due volte l'anno. Ora accade anche quattro o cinque volte e sono sempre più violenti". Rahman è a capo della Bangladesh Environmental Association and Develpement Society (BEDS), un'ong che dal 2010 si occupa di conservazione e lotta al cambiamento climatico, portando avanti oltre 50 progetti di mitigazione e adattamento lungo le zone costiere del Bangladesh.

Riusciamo a parlarci in videocall durante l'estate. In Italia già si boccheggia. Mi sorride con accondiscendenza e mi risponde che lì, da lui, le temperature sono talmente alte che a volte è persino difficile conviverci.

L'iniziativa più importante di BEDS riguarda la restaurazione delle foreste di mangrovie, le Sundarbans, patrimonio dell'UNESCO dal 1997 e celebre sfondo alle avventure di Sandokan. Giganti, in grado di creare una sorta di scudo contro le inondazioni. Oggi, però, si fa la conta dei superstiti della deforestazione. "Supportiamo le comunità locali che danno vita alle mangroove nurseries e piantano i nuovi alberi. Se ne occupano soprattutto le donne. Se nel 2007 e nel 2009 le Sundarbans fossero state più folte, forse i villaggi e i terreni costieri non avrebbero subito tutti questi danni durante i due cicloni catastrofici che si sono abbattuti sul nostro Paese".

Ma non è così semplice. "L'anno scorso abbiamo piantato diverse mangrovie, ma sono morte tutte in seguito alle piogge intense. È stato frustrante". Il cuneo salino avanza lungo fiumi e acque sotterranee, mentre la salinità del suolo aumenta. "Trovare campi da coltivare è sempre più difficile, molte persone sono costrette a migrare. Altre invece ti rispondono che non sanno cosa fare o dove andare. Sono molto preoccupato. Gli scienziati lanciano allarmi da decenni, ma nessuno se ne è mai davvero occupato. Ora la crisi climatica è diventata un problema con cui ci scontriamo ogni giorno. Impossibile sapere quale sarà il nostro futuro".

"La crisi climatica è diventata un problema con il quale ci scontriamo ogni giorno"

Maksud Rahman, BEDS

A giugno, Bangladesh e India sono stati colpiti dalle più violente inondazioni degli ultimi 122 anni. Tra morti, feriti e sfollati sono stati coinvolti 9 milioni di persone. Entro il 2050, il 18% del territorio bangladese sarà sommerso e 7 milioni di abitanti dovranno spostarsi. Oggi, il Bangladesh è il terzo Paese di provenienza dei migranti che arrivano in Italia (13mila persone da gennaio a novembre 2022, secondo i dati del Viminale). All'ottavo posto troviamo il Pakistan, che ad agosto ha dovuto affrontare un ciclo di piogge monsoniche violentissime. Fino a pochi anni fa, queste nazioni non apparivano nemmeno tra le prime dieci.

Nel prossimo numero indagheremo più da vicino un legame di cui non si parla praticamente mai, quello tra crisi climatica, terrorismo, guerre e rivolte.

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Sono Laureata in Lingue e letterature straniere e ho frequentato la Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. Mi occupo principalmente altro…