Rinascere con dignità: storie di riscatto di alcune donne che vivevano in condizioni difficili

Istruzione, formazione e lavoro. Sono i tre capisaldi per assicurare a una donna una vita migliore. In occasione dell’evento Fà la cosa giusta! a Milano, abbiamo incontrato diverse associazioni che aiutano donne di etnia rom, del continente africano e indiano a riscattarsi dalla propria condizione di disagio. Queste le loro storie.
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Gaia Cortese 24 Marzo 2019

Donne in condizioni di svantaggio economico e sociale che attraverso un’adeguata formazione al lavoro, riescono a riscattarsi e a cambiare probabilmente il proprio destino. Tre realtà diverse, dalle donne di etnia rom, a quelle del Burkina Faso e del subcontinente indiano. Testimonianze concrete di cosa si può fare per favorire l’integrazione, per garantire istruzione, alfabetizzazione e formazione e anche, non meno importante, per permettere una dignità umana attraverso una remunerazione fissa per il lavoro svolto. L'evento Fà la cosa giusta! che ha fatto tappa a Milano a inizio marzo ci ha permesso di approfondire queste storie di riscatto.

Il burro di karitè dell’associazione Dollebou

Un’azienda danese che commercializza burro di karitè proveniente dal Burkina Faso. Nelle storie di solidarietà ed emancipazione può capitare anche questo. Così da una parte abbiamo delle piccole comunità rurali di donne burkinabè che producono burro di karitè e che vengono seguite e sostenute dall’associazione femminile Dollebou; dall’altra un’azienda danese, la Nouchi IVS, che, in collaborazione con l’associazione, decide di commercializzare questo prodotto, promuovendone lo sviluppo sostenibile e la distribuzione sul mercato europeo.

“Dal 2006 io e mia moglie Dida ci occupiamo di un gruppo di 150 donne seguite dall’associazione femminile Dollebou (che in lingua bissa significa “per il domani”), che producono un ottimo burro di karité in Burkina Faso – racconta Gianfranco Molinar, sostenitore dell’associazione Dollebou -. Nel corso di questi anni le abbiamo accompagnate nella loro evoluzione tendente a un prodotto di alta qualità, oltre a contribuire ad altre iniziative mirate all’istruzione e all’alfabetizzazione (il 98% delle donne era analfabeta prima dell’avvio del progetto), alla formazione professionale e al miglioramento di strutture come per esempio le scuole. A partire dal 2017 abbiamo avuto la fortuna di incontrare persone come Vittorio e Deborah Boffa, fondatori di Nouchi IVS in Danimarca, che hanno creduto nel lavoro dell’associazione Dollebou. Grazie all’aiuto di Nouchi IVS, l’associazione è in grado di distribuire il burro di karité secondo la normativa Cosmetici della UE. Ma non è tutto. L'azienda danese ha anche iniziato a investire in progetti che puntano a migliorare i prodotti a base di burro di karité”.

La piccola stireria delle donne rom

A Milano, in zona Lambrate, si trova una piccola sartoria e stireria dove lavorano almeno una trentina di donne rom. Il progetto prende il nome di Taivè che in lingua Romanì significa “filo”. Fortemente voluto dalla Caritas Ambrosiana e finanziato da Regione Lombardia, Taivè è un progetto, nato nel 2009, centrato sull’emancipazione femminile attraverso il lavoro. Ad oggi è riuscito a coinvolgere una trentina di donne rom, in età lavorativa, dai 18 ai 50 anni; sono donne kosovare, macedoni e rumene, provenienti da campi abusivi o dai campi regolari (ora chiusi) di Via Triboniano e di Via Novara a Milano.

Questo lavoro non solo aiuta a rafforzare la propria autostima e la presa di coscienza dei propri diritti, ma migliora la condizione sociale anche delle loro famiglie. Gli obiettivi del progetto puntano anche a fornire alle donne rom le competenze di base per accedere alle attività di stireria e di piccola sartoria richieste dal mercato del lavoro, a potenziare il livello di alfabetizzazione e di padronanza della lingua italiana, ad avere un’attività lavorativa remunerata come contributo al mantenimento del loro nucleo familiare e a favorire l’emancipazione della donna.

Riciclare i Sari per farne accessori e abbigliamento

I sari sono i tradizionali abiti delle donne indiane. Consistono in una fascia di stoffa larga circa un metro, la cui lunghezza può variare dai quattro ai nove metri, che viene avvolta intorno al corpo della donna con metodi diversi a seconda della sua funzione. Da questo fascia di stoffa è nato un progetto di emancipazione femminile che ha l’obiettivo di migliorare la qualità della vita di donne indiane che si trovano in condizioni di svantaggio economico e sociale: I was a Sari.

L’idea alla base del progetto è quella di realizzare qualcosa di etico dal riciclo del Sari, creando accessori e abbigliamento dal gusto contemporaneo e soprattutto permettendo un lavoro dignitoso alle donne indiane. Il progetto è stato presentato all’evento Fà la cosa Giusta! di Milano da Oxfam Italia.

“Il progetto I Was a Sari è nato nel 2014: inizialmente coinvolgeva solo dodici donne, ma in cinque anni sono diventate settanta – spiega un’operatrice di Oxfam Italia -. Le donne indiane sono adeguatamente seguite nei sette centri per la formazione di Mumbai, e sono equamente remunerate per il proprio lavoro. Abbiamo fatto in modo che ciascuna donna potesse avere un libretto di risparmio: questo permette ancora di più una presa di coscienza dei propri diritti, un aspetto sociale non così scontato in questa parte del continente. Basti pensare che qui lavorano molte donne che inizialmente sono state accompagnate dalla suocere e che, solo con il consenso di quest'ultime, hanno potuto continuare a formarsi nei nostri centri”.

Il 100 per cento degli utili ottenuti dalla vendita dei prodotti viene utilizzato per progetti finalizzati all’emancipazione delle donne indiane. La strada è quella giusta. Aumentano i centri di formazione, aumentano le donne coinvolte e non manca qualche soddisfazione in più come un progetto di ricamo finanziato recentemente dalla casa di moda italiana Gucci.