C’è plastica e plastica: una piccola guida per capire meglio a quali prodotti si applica la direttiva Sup

La pubblicazione delle linee guida da parte della Commissione Europea ha scatenato in Italia polemiche e sollevato non pochi dubbi: perché mettere sullo stesso piano bioplastiche e plastiche tradizionali? Ha senso parlare di polimeri naturali non chimicamente modificati? Proviamo a fare chiarezza con un esperto, senza dimenticare che il principale obiettivo della direttiva è quello di puntare maggiormente su riutilizzabilità e riciclo.
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Federico Turrisi 24 Giugno 2021

Entro il 3 luglio, lo sappiamo, l'Italia e tutti gli altri Paesi membri dell'Unione Europea dovranno recepire la direttiva 2019/904, meglio conosciuta come direttiva SUP (Single Use Plastics). Oltre a individuare la tipologia di prodotti monouso che non potranno più essere immessi sul mercato comunitario o che comunque verranno sottoposti a limitazioni, nelle linee guida pubblicate lo scorso 31 maggio dalla Commissione Europea viene anche data una definizione di plastica.

Nell'ambito di applicazione della direttiva vengono incluse non solo le plastiche tradizionali (e i prodotti a base di carta che però presentano un rivestimento di plastica), ma anche le plastiche oxo-degradabili e le plastiche biodegradabili (anche quelle a base biologica), per i motivi che vedremo tra poco. Gli unici ad essere "salvati" dalla direttiva sono i polimeri naturali "non chimicamente modificati". Ti sembra di esserti perso qualcosa tra tutti questi termini tecnici? Niente paura. Per comprendere meglio il significato delle indicazioni fornite dalla comunità europea e le differenze tra i vari materiali, abbiamo interpellato Mario Malinconico, dirigente di ricerca presso l'Istituto per i Polimeri, Compositi e Biomateriali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Ipcb-Cnr).

Polimeri naturali (o quasi)

Cellulosa, lignina, algina, pectina, chitosano. Sono tutti polimeri disponibili in natura allo stato grezzo. "Si trovano all'interno di un sistema complesso e dunque c'è bisogno di un processo di estrazione per liberare il polimero target – quello di cui ho bisogno per realizzare un imballaggio o un manufatto – dal contesto biologico in cui si è formato", spiega Mario Malinconico. "Se, per esempio, devo estrarre chitosano dai gusci dei crostacei, devo comunque utilizzare delle sostanze chimiche. O ancora, la fibra di bambù che viene pressata termicamente per darle la forma di una vaschetta o di una posata deve essere prima purificata. La necessità di non contaminare gli alimenti richiede delle operazioni preliminari che predispongono il contenitore ad essere sicuro e durevole, oltre a essere poi più facile da gestire, in fase di smaltimento, in un impianto di compostaggio".

Il punto è che per la normativa europea basta che il processo di polimerizzazione sia avvenuto in natura, indipendentemente dal processo di estrazione applicato, e che la struttura chimica del polimero rimanga inalterata, anche se ha subito un trattamento chimico o una trasformazione mineralogica fisica, ad esempio per rimuovere le impurità. Questo vuol dire che – per fare ancora un esempio – la cellulosa rigenerata, sotto forma di viscosa o di lyocell, viene riconosciuta come polimero naturale non chimicamente modificato, mentre l'acetato di cellulosa, utilizzato tra l'altro per realizzare i filtri delle sigarette, no.

Si tratta di argomenti complessi e la distinzione può apparire molto sottile. Di certo, un prodotto come una forchetta in bambù sarà senz'altro compostabile, ma non può essere considerato completamente naturale. Sarebbe più corretto dire che ha subito per la sua creazione un processo per cui sono state comunque impiegate sostanze chimiche.

Plastiche biodegradabili (?)

Se in linea di principio la compostabilità (e quindi la biodegradabilità) è valida per i prodotti naturali, il discorso per le bioplastiche è un po' più complicato. Quante volte abbiamo sentito dire o letto che una bottiglia di plastica in mare impiega 450 anni per degradarsi? Questo perché il polietilene tereftalato (meglio noto con la sigla Pet), il materiale plastico con cui sono realizzate le bottiglie, ha bisogno di quell'arco di tempo molto esteso per dissolversi (tecnicamente "idrolizzarsi"), disperdendo intanto microplastiche e arrecando gravi danni all'ambiente. Teoricamente quindi la nostra bottiglia di plastica è biodegradabile, ma capisci anche quanto sia potenzialmente inquinante se non viene smaltita correttamente e avviata a riciclo.

Ecco perché quando parliamo di "plastiche biodegradabili" ci riferiamo a un processo di biodegradazione che deve compiersi in tempi e modi definiti. "In assenza di una norma di riferimento è impossibile definire quando un materiale è biodegradabile o meno", aggiunge Malinconico. "Non possiamo immaginare che un polimero, una volta abbandonato in un bosco o su una spiaggia, poi biodegradi nei modi e nei tempi previsti. Il motivo è presto spiegato: non essendo controllabili le condizioni di temperatura, radiazione solare e carica batterica necessarie, questo materiale potrebbe impiegare tempi molto più lunghi. Esistono invece delle normative di riferimento e dei test progettati ad hoc per definire tempi e modi di compostaggio industriale e domestico".

Nel caso delle plastiche biodegradabili, la norma di riferimento, armonizzata a livello europeo, è la UNI EN 13432, che fissa dei requisiti precisi. Tra questi, la caratteristica di un prodotto di biodegradarsi sotto l’azione di microrganismi, convertendo almeno il 90% del materiale in anidride carbonica entro 6 mesi, quella di non produrre effetti negativi sul processo di compostaggio e sulla qualità del compost e quella di avere limitatissime concentrazioni di metalli pesanti. Per fare un esempio concreto, una busta in Pla conforme alla normativa UNI EN 13432 risponde a questi criteri ed è perciò adatta ad essere smaltita nella frazione organica (il bidone dell'umido, per intenderci).

E allora per quale ragione la direttiva Sup colpisce anche i prodotti monouso realizzati con bioplastiche, inclusi quelli a base biologica? Possiamo leggere la spiegazione nelle faq a corredo delle linee guida della Commissione Europea: "Attualmente non esistono norme tecniche ampiamente condivise per certificare che un determinato prodotto di plastica sia adeguatamente biodegradabile nell'ambiente marino in un breve lasso di tempo e senza causare danni all'ambiente. Trattandosi di un settore in rapida evoluzione, la revisione della direttiva nel 2027 comprenderà anche una valutazione del progresso scientifico e tecnico riguardante i criteri, oppure uno standard per la biodegradabilità in ambiente marino applicabile ai prodotti di plastica monouso".

Un'altra espressione, infine, che viene ripresa nel testo della direttiva è plastiche oxo-degradabili. Che cosa vuol dire? Per rispondere, occorre fare una piccola digressione. Per prevenire una prematura degradazione, ai materiali plastici vengono inseriti additivi in grado di renderli più resistenti all’attacco ambientale, che è dato sia da fattori abiotici (come le radiazioni ultraviolette del sole o l'acqua) sia da fattori biotici (cioè l'azione di microrganismi).

"Esistono delle sostanze organiche e inorganiche, o anche una combinazione delle due, che sono in grado di intrappolare i «radicali liberi» (proprio come quelli responsabili dell'invecchiamento cellulare nel nostro organismo) che si formano nel processo di degradazione di una plastica tradizionale: parliamo di polietilene, polipropilene, Pet, nylon, eccetera. All’interno di questi materiali vengono incorporati degli stabilizzanti che sono in grado di bloccare la degradazione", prosegue Malinconico.

Ebbene, nel caso delle plastiche oxo-degradabili, avviene l'opposto. Anziché frenarlo, il processo di degradazione viene accelerato con l'aggiunta di particolari ingredienti in grado di favorire la disgregazione molecolare. C'è però un problema: che fine fanno poi le microplastiche derivanti dalla frammentazione delle macromolecole? "La domanda è se persistono nell'ambiente e se nella fase biotica, ovvero quella in cui agiscono i microrganismi, il processo di biodegradazione avviene nei tempi e nei modi previsti. Siccome non esiste questa certezza, non è stato possibile standardizzare un metodo per la determinazione della biodegradazione delle plastiche additivate. Per questo motivo l’Unione Europea le considera perfino più pericolose per l’ambiente, anche perché, una volta attivato il processo di degradazione, non sono più visibili e ciò rende più difficile il loro recupero", conclude Malinconico.

Chiudere il cerchio

Questa panoramica sui vari tipi di plastica non deve farci perdere di vista l'obiettivo primario della direttiva SUP: ridurre il più possibile il volume di rifiuti generati, abbandonando la logica dell'usa e getta e cercando di favorire una reale transizione verso un modello di economia circolare. La stella polare rimane cioè la famosa regola delle 3R: ridurre, riutilizzare, riciclare.

"A valle, occorre educare cittadino in modo che sappia con chiarezza dove smaltire il rifiuto. È quindi molto importante avere etichette che forniscano indicazioni chiare su come gestire gli imballaggi a fine vita. A monte, il concetto chiave deve essere necessariamente la riutilizzabilità e la possibilità dei prodotti, attraverso semplici processi fisici di trasformazione, di essere reimmessi sul mercato".

Il principale nodo, fa notare Malinconico, riguarda soprattutto i costi. Nel caso della plastica (e non solo), il riciclo dovrebbe diventare la strada più conveniente per tutti. "Una frontiera interessante, su cui bisognerà investire, è quella del riciclo chimico. Oggi ci sono a disposizione nuovi catalizzatori in grado di depolimerizzare le plastiche per ridurle alle molecole elementari, purificandole e reimmettendole negli impianti di polimerizzazione. Questo è il ciclo ideale, virtuoso. Certo, tutti questi passaggi hanno un costo. Un conto è avere del polietilene già purificato proveniente dagli impianti di raffinazione del petrolio, un conto è ottenerlo da una depolimerizzazione, dopo aver separato gli additivi, gli stabilizzanti eccetera. Il punto centrale è senza dubbio chiudere la filiera. Cioè garantire che i prodotti vengano concepiti anche per la loro seconda vita, in maniera tale che possano poi trovare un mercato".