Chi sono gli hikikomori? Intervista alla Dott.ssa Giulia Tomasi psicoterapeuta per l’associazione Ama di Trento

Se non indicato espressamente, le informazioni riportate in questa pagina sono da intendersi come non riconosciute da uno studio medico-scientifico.
Abbandonano la scuola, gli hobby e gli amici. Si rinchiudono nella loro stanza e si isolano dal mondo esterno. Sono gli hikikomori, adolescenti e giovani adulti che si sentono traditi dalla società e la rifiutano. Ne abbiamo parlato con la Dottoressa Giulia Tomasi, psicologa psicoterapeuta ad orientamento costruttivista presso l’associazione A.M.A di Trento.
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Gaia Cortese 29 Maggio 2020

Sono bravi a scuola, rispettano gli orari, ubbidiscono ai genitori. Hanno forse pochi amici, ma è perché sono timidi, solo un po' introversi. Poi un giorno iniziano a non voler più uscire di casa, non vogliono più frequentare le elezioni a scuola, non escono neppure con i pochi amici che anno. E i genitori iniziano a preoccuparsi. Sono gli hikikomori, adolescenti e giovani adulti che decidono di isolarsi dalla società rinchiudendosi in casa e rifiutando qualsiasi contato con il mondo esterno. Ne abbiamo palato con la Dottoressa Giulia Tomasi, psicologa psicoterapeuta ad orientamento costruttivista presso l'associazione A.M.A di Trento.

Dottoressa Tomasi, chi sono gli hikikomori?

Hikikomori è un termine giapponese che significa “stare in disparte”. Indica tutti quei ragazzi e giovani adulti che si differenziano dagli adolescenti che ci aspetteremmo: sono particolarmente timidi e introversi, tendono a stare di più sulle loro, le sfumature di questa tipologia sono tante fino ad arrivare a usare questo termine a livello di quella patologia sociale che porta alla reclusione in casa: la sindrome hikikomori. Nella definizione "hikikomori" rientrano quindi i ragazzi con un carattere più chiuso, anche se al giorno d’oggi il fenomeno tende a indicare prevalentemente quei giovani che non vanno a scuola, che non lavorano, che rifiutano la socialità nella maniera più ampia. Non si tratta infatti di una patologia psicologica, ma sociale.

Qual è la fascia di età più colpita?

C’è da fare una differenziazione tra quello che è il fenomeno degli hikikomori italiano o giapponese. In Giappone la fascia più colpita è quella dei ragazzi che frequentano gli ultimi anni delle scuole superiori e l’università, quindi intorno ai vent’anni; in Italia l’età si abbassa e casi di hikikomori si evidenziano già nel biennio delle superiori o anche alle scuole medie.

Quando si manifestano i primi campanelli di allarme?

Sono quei ragazzi che fanno un po’ fatica a integrarsi nel gruppo, che dimostrano poco slancio di socialità. Di norma sono molto intelligenti, molto bravi a scuola, hanno un buon rapporto con i genitori, ma magari fanno più fatica ad avere amici. Queste caratteristiche possono essere già un campanello di allarme. Il fatto è che finché a scuola va tutto bene, i professori non si lamentano e i genitori non fanno fatica a farsi ubbidire, non c'è ragione per preoccuparsi. I primi campanelli di allarme vengono fuori quando il ragazzo manifesta di non voler andare più a scuola: questo preoccupa molto il genitore. Magari prima, quello stesso ragazzo andava a scuola contento, poi inizia a inventare scuse, a dire di avere il mal di testa, il mal di pancia, sintomi non inventati, ma che prova veramente perché anche il corpo manifesta le nostre preferenze. Ecco allora che i genitori iniziano a preoccuparsi.

È una forma di misantropia?

Più che contro le persone, questi ragazzi sono schierati contro la nostra società. Manifestano un malessere contro una società iper-competitiva, e sono molto critici nei confronti del valore dato all’immagine; se si parla con loro, infatti, è forte l’idea di come i social network distorcano la realtà dei fatti. Sono ragazzi traditi dalle aspettative della società. Crescono con l’idea che impegnandosi possano ottenere tutto dalla vita, mentre poi alle scuole medie e nel biennio delle superiori si accorgono che essere bravi a scuola non basta più. Ecco perché per molti di loro la soluzione è giocare ai videogiochi dove, se si impegnano, ottengono risultati; al contrario, la vita reale non è cosi lineare.

Cosa fanno nel loro isolamento in casa? Come trascorrono il tempo?

In verità non trascorrono tutto il loro tempo ai videogiochi, la componente del videogioco è solo una delle tante occupazioni che possono avere. Il ragazzo che non gioca tuttavia preoccupa molto di più, perché almeno il videogioco è una forma di relazione e finché c’è il videogioco c’è interazione. Diverso il discorso del ragazzo che disegna, legge o scrive. Ci sono ragazzi che hanno tanti hobby, molti di loro hanno una dedizione artistica, altri approfondiscono molto i temi di attualità, rimangono aggiornati, guardano le serie tv, ma queste sono tutte attività in solitaria e devono preoccupare di più.

Quali sono le cause che portano a questo tipo di isolamento sociale?

C’è un fattore predisponente, il carattere, la sensibilità, ma sono da considerare anche i fattori precipitanti, ossia eventi che fanno sì che ci sia una sorta di switch nel ragazzo. Possono essere eventi legati al gruppo dei pari, come un fenomeno di bullismo o di cyberbullismo. Gli episodi devono essere elaborati perché a volte possono anche essere ingigantiti dai ragazzi ed essere solo percezioni molto forti.

Quello che ha un peso notevole è lo sguardo di ritorno, il rispecchiamento negli occhi degli altri; è ciò che può far sentire il ragazzo inadeguato, non all’altezza. E questo succede in una fase dell’adolescenza o della preadolescenza, in cui il corpo cambia, un corpo che magari non avremmo scelto e che arriva in maniera sgangherata. È una fase della vita molto delicata e se già il ragazzo si sente scomodo in questo corpo nuovo, e gli altri se ne accorgono e glielo fanno pesare, può essere un fattore precipitante che porta a isolarsi da tutto e tutti.

Quanto è diffuso il fenomeno hikikomori in Italia?

È difficile fare delle stime perché è molto facile individuare quelli che, per esempio, non frequentano più la scuola dell’obbligo, ma dai 16 anni in poi non abbiamo dati certi. Le stime dicono che siamo intorno ai 120mila casi, considerando che l’età viene campionata dai 15 ai 30 anni. La prevalenza dell’eta è questa, ed è netta la maggior diffusione del fenomeno tra i maschi.

Perché più i maschi?

In quella fascia di età una ragazza che ha qualche forma di malessere è più facile che abbia un comportamento da disturbo alimentare, e come chi soffre di anoressia rifiuta in qualche modo quel corpo nuovo che arriva e in cui non si riconosce, il maschio si ritira e rinasce come un avatar virtuale. Sono tutte forme di sofferenza che prevedono una sorta di suicidio sociale. La società dell’individualismo crea solitudine e in questo momento storico la seconda causa di morte tra i giovani adulti è proprio il suicidio.

Come si esce da questo isolamento?

Il mio consiglio è quello rivolgersi a uno psicoterapeuta, che sappia di cosa stiamo parlando proprio perché va fatta un‘analisi di tipo differenziale e tanti sbagliano a "non" riconoscere la patologia, prendendola più per una fobia scolare o una fobia sociale. È poi necessario un buon lavoro di rete, bisogna coinvolgere i genitori e, in base all’età e alla scolarità del ragazzo, se il micro-obiettivo è quello del diploma, bisogna coinvolgere anche un educatore sociale che vada a casa del ragazzo e lo segua da vicino. È poi importante prendere contatti con la scuola per capire quali sono i margini di recupero. In alcuni casi, con l’Associazione A.M.A. non è il ragazzo ad essere preso in carico, ma si lavora molto sui genitori; in questo modo, in maniera indiretta, si può far uscire il ragazzo dal suo problema. Questo è il risultato a cui miriamo.

Attenzione, però. La timidezza non è una malattia, come non lo è avere dei gruppi di amicizie ridotti o avere amici in rete per giocare ai videogiochi. Quello che si vuole evitare è il blocco emotivo, il rimanere fermi in una data fase di vita, con il rischio che il problema possa cronicizzarsi. L’idea è quella di vedere un terapeuta perché da lì si possono attivare altre figure correlate per il lavoro di rete che c’è alla base della guarigione.

C’è il rifiuto degli hikikomori a voler uscire dal loro isolamento?

Sì, c’è il rifiuto. La maggior parte dei ragazzi dice di stare bene, ma bisogna considerare anche che i sintomi psicologici sono delle difese, ed è normale che ci sia un rifiuto a vedersele togliere. Ecco perché si lavora molto con i genitori, che di fronte al problema ne prendono coscienza. I genitori riconoscono il problema, assicurano la loro presenza e il rispetto per il dolore del ragazzo e per il suo modo di affrontarlo. Stanno male anche loro ma, invece che nascondere la testa sotto la sabbia, lavorano per risolvere il problema, magari iniziando a frequentare un gruppo di aiuto, delle consulenze individuali. Se si pensa che sia solo un momento, un disagio temporaneo, è facile che il ragazzo se ne approfitti e si infili in questi pertugi di dubbio. Al contrario, se la reazione dei genitori è quella di riconoscere il problema, anche il ragazzo arriva con il tempo a riconoscerlo.