Cos’è l’Eacop, il mega oleodotto che l’Italia sta pensando di finanziare

Verrà costruito tra Uganda e Tanzania, attraversando 12 riserve naturali e oltre 200 fiumi. I pozzi di petrolio, inoltre, verranno scavati nei pressi del Lago Alberto, il settimo più grande dell’Africa e fondamentale per preservare l’habitat di diverse specie già a rischio estinzione. La SACE, società controllata dal MEF, sta valutando di assicurare il progetto, in netto contrasto con le promesse del governo su fonti rinnovabili ed energia pulita.
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Giulia Dallagiovanna 29 Aprile 2022

Mentre l'ultimo rapporto Ipcc esorta a ridurre le emissioni derivanti dai combustibili fossili per poter centrare l'obiettivo di rimanere al di sotto degli 1,5 gradi di aumento della temperatura media terrestre, l'Italia sta valutando il sostegno a un nuovo oleodotto. Anzi, al più lungo oleodotto riscaldato del mondo. Approvato esattamente un anno fa, l'Eacop (East African crude oil project pipeline) dovrà condurre il greggio dall'Uganda fino alla Tanzania, per poi raggiungere l'Oceano Indiano, da dove salperà verso i mercati internazionali. È stato pensato per trasportare fino a 216mila barili al giorno, con potenziali emissioni di CO2 che secondo gli ambientalisti potrebbero arrivare a 34 milioni di tonnellate all'anno. Sei volte quelle dell'Uganda.

Le proteste da parte degli attivisti locali e le denunce di associazioni come il Wwf proseguono almeno dal 2017, cioè da quando si è iniziato a parlare dell'Eacop. Ora anche in Italia è stata lanciata la campagna internazionale #stopEacop alla quale aderiscono, tra gli altri, la rete The Action Network, il movimento Fridays for Future e l'associazione ReCommon.

La prima richiesta è che la SACE, l'agenzia pubblica italiana per il credito all'esportazione, rinunci ad assicurare il progetto, dimostrando con i fatti la promessa del governo di investire in fonti rinnovabili ed energia pulita. La seconda è uno stop totale a un'infrastruttura che avrà un impatto ambientale e sociale potenzialmente devastante.

Dove verrà costruito

Lungo 1.443 chilometri, l'oleodotto partirà dal Lago Alberto e arriverà fino alla città portuale di Tanga.

Il Lago Alberto è il settimo più grande dell'Africa ed è abitato da popolazioni di ippopotami, scimpanzé e coccodrilli che verrebbero messe in pericolo dal nuovo impianto. In quest'area sono state ritrovate le due riserve di petrolio che si vogliono sfruttare e che si stima contengano fino a 6 miliardi di barili. Hanno quindi attirato le mire dell'industria petrolchimica, alla costante ricerca di nuovi giacimenti per sostituire quelli in via di esaurimento.

Un progetto diviso in tre

Il mega progetto si divide, in realtà, in tre parti: Tilenga, Kingfisher e l’oleodotto vero e proprio. Il primo sarebbe collocato nell'Uganda nord-occidentale, al confine con la Repubblica Democratica del Congo, e consisterebbe nella perforazione di 400 pozzi in totale, di cui 132 nel parco naturale delle cascate Murchison. Il secondo invece occuperebbe la zona sud del lago dove verrebbero scavati altri 100 pozzi. Infine l'oleodotto, con una tubazione interrata di 61 centimetri di diametro, un corridoio di sicurezza largo 30 metri e oltre 80 stazioni di controllo lungo tutto il percorso. Il tubo dovrà garantire una temperatura interna costante a 50 gradi, perché questo specifico petrolio, piuttosto viscoso, ha bisogno di essere riscaldato per riuscire a fluire.

L'oledotto attraverserebbe 12 riserve naturali e 200 fiumi, arrivando a intaccare anche il Lago Vittoria, il più grande di tutta l'Africa

Una volta costruito, Eacop attraverserebbe 12 riserve naturali, 200 fiumi, quasi 15mila fattorie e arriverebbe a intaccare persino le rive del Lago Vittoria, il più grande di tutta l'Africa. A controllarlo saranno la multinazionale francese Total Energies in collaborazione con la cinese Cnooc Ltd e due compagnie petrolifere nazionali: UNOC, per l'Uganda, e TPDC, per la Tanzania. I primi lavori sono già iniziati e dovrebbero essere portati a termine nel 2025.

L'impatto sull'ambiente

I governi dei due Paesi che hanno firmato l'accordo ne hanno esaltato il ritorno in termini economici e di posti di lavoro. È stato invece completamente oscurato il rischio ambientale che l'oleodotto rappresenta.

Prima di tutto, viene messa in grave pericolo la biodiversità: già nel 2017 il Wwf Uganda avvertiva in un report che l'enorme struttura e la sua costruzione avrebbero arrecato disagi e messo a repentaglio gli habitat di diversi animali inseriti nella lista rossa delle specie minacciate dello Iucn (International union for the conservation of nature). Si aggiunga poi che le riserve idriche attraversate dall'Eacop forniscono acqua potabile a circa 40 milioni di persone, mentre migliaia di famiglie di contadini dovranno essere sfollate per far posto al cantiere, perdendo le proprie terre. E non va tralasciata nemmeno la possibilità di fuoriuscite accidentali o di incidenti, che farebbero riversare il greggio nei terreni e nei bacini idrici circostanti. Infine, la CO2: le emissioni di anidride carbonica annuali sarebbero pari all'8% di quelle prodotte dal nostro Paese, favorendo il riscaldamento del Pianeta e peggiorando la crisi climatica.

Le proteste degli ambientalisti

In Uganda e Tanzania gli ambientalisti ovviamente protestano. Trentotto movimenti si sono uniti in una lettera inviata ai governi lo scorso anno e 260 organizzazioni africane e internazionali hanno rivolto un appello alle banche, chiedendo loro di non finanziare l'Eacop. Alla fine alcuni istituti si sono davvero tirati indietro, come Barclays e Credit Suisse, ma è più probabile che la ragione sia la prospettiva di un investimento poco incoraggiante. In totale, si contano 15 banche e 7 compagnie assicurative che hanno detto di no all'offerta.

Tra loro però non c'è SACE, società per azioni controllata dal Ministero dell'Economia e delle Finanze del nostro governo, la quale sta invece valutando di assicurare il progetto. L'associazione ReCommon, assieme a Fridays for Future, ha fatto partire un mailbombing per scoraggiare la società. "Le azioni di SACE sono per il 90% del Ministero dell’Economia e delle Finanze, quindi è come se lo Stato italiano supportasse il progetto. – hanno spiegato gli attivisti. – Per rispettare l’Accordo di Parigi serve tagliare drasticamente le emissioni: un investimento di queste dimensioni a favore dei combustibili fossili va nella direzione opposta. Non possiamo e non vogliamo essere complici di un progetto che ha come scopo far arricchire gli investitori del fossile a scapito del nostro futuro e di quello delle aree e delle persone direttamente coinvolte. Non vogliamo che lo Stato italiano partecipi in alcun modo a nuovi progetti di combustibili fossili".

La decisione dovrebbe arrivare entro un mese, data in cui sapremo se il nostro governo fa davvero sul serio quando parla di transizione energetica e fonti rinnovabili.

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