Phubbing è il neologismo con cui ci si riferisce all’abitudine di snobbare la compagnia degli altri, specie in contesti informali come un’uscita di gruppo o un appuntamento con il partner, preferendo utilizzare lo smartphone o altri device digitali.
Gli attori di questo fenomeno sono due:
Nel 2012 Macquarie Dictionary diedero via a una campagna – a metà tra campagna sociale e campagna di promozione per la nuova edizione del dizionario di inglese australiano – che coinvolse numerosi studiosi, linguisti e utenti comuni nel cercare di trovare un termine con cui si potesse indicare l’abitudine a isolarsi mediante l’utilizzo dello smartphone o altri dispositivi simili anche in contesti e occasioni pubblici o in compagnia di altre persone. La campagna (che aveva il significativo titolo di “Stop Phubbing”) consisteva nel segnalare su Twitter e altre piattaforme social chiunque venisse beccato a utilizzare lo smartphone mentre era in gruppo con gli amici, seduto a un tavolo per una cena in compagnia e via di questo passo.
Oggi più comunemente viene data all’abitudine al phubbing la definizione di "atto di snobbare qualcuno in un contesto sociale, guardando il proprio telefono piuttosto che prestargli attenzione". È in questa prospettiva che il phubbing può essere interpretato, a ragione, come una forma di dipendenza da smartphone o, meglio, come un sintomo dell’altrettanto diffusa paura che stia succedendo qualcosa – online, sui social, sui gruppi WhatsApp di cui si è parte e via di questo passo – e che si rischi di perderselo.
L’aspetto considerato più paradossale del phubbing è che spesso ci si astrae dalla situazione sociale che si sta vivendo per parlare con altre persone via chat o messaggistica istantanea, per commentare post su un un gruppo Facebook o per inviare reazioni a una storia su Instagram, alla costante ricerca di connessioni – e di compagnia, sarebbe spontaneo aggiungere – mentre si ignorano quelle fisiche, faccia a faccia, che si stanno vivendo nel presente.
I comportamenti tipici del phubber sono:
Questo comportamento trasmette al phubbee, ovvero alla persona con cui si sta parlando:
Numerosi studi hanno provato ad analizzare gli effetti del phubbing, dimostrando come questi risultino più sistemici e generalizzati di quanto si possa immaginare, oltre che operanti su aspetti molto diversi della vita delle persone.
Va da sé che il phubbing affligge, innanzitutto, le relazioni: è il Time a riportare i risultati di studi secondo cui chi è stato snobbato da qualcuno che ha preferito interagire con il proprio smartphone ha trovato poco o per nulla soddisfacente la conversazione in cui pure è stato impegnato. Più a sorpresa, la sola presenza nel setting in cui avviene la conversazione di uno smartphone, anche se non utilizzato, basta perché i presenti si sentano meno connessi l’uno con l’altro.
Se tutto quello che facciamo online ha effetti su di noi e sulla nostra salute mentale, anche il phubbing – o, meglio, l’essere vittime di phubbing – incide sulla percezione che abbiamo di noi stessi, sui bisogni avvertiti, su cosa decidiamo di focalizzarci e via di questo passo, anche in virtù di quanto spesso accade di essere oggetto di un’attenzione distratta da parte degli altri. È di senso comune, del resto, l’essersi sentiti esclusi, non ascoltati, se non addirittura ostracizzati quando qualcuno ha preferito alla propria compagnia quella dello smartphone o è stato distratto da una telefonata, un messaggio, una notifica durante una conversazione.
Altrettanto semplice da capire, e confermato dagli studi, è che se il phubbing interviene nelle dinamiche di coppia può incidere sulla fiducia provata nei confronti del partner o abbassare il livello di soddisfazione, se non scatenare episodi depressivi nel partner che si è visto surclassato dallo smartphone.
Inoltre l’esperienza di phubbing ha un impatto negativo e abbassa il tono dell’umore riducendo la qualità della comunicazione e del rapporto perché va a intaccare gli stessi bisogni che vengono minacciati quando le persone si sentono socialmente escluse: bisogno di appartenenza, di autostima, di attribuzione di significato e controllo, portando a un vissuto di ostracismo e isolamento. Siamo tutti sempre, perennemente agganciati al nostro smartphone.
L’esperienza di sentirsi invisibili ed esclusi dall’interazione sociale porta a vissuti di depressione, ansia, rabbia, solitudine determinando di fatto esclusione e impoverimento delle risorse dell’individuo.
Fra i primi a studiare a fondo il fenomeno, Chotpitayasunondh e Douglas (2018) lo hanno riportato alla dipendenza da smartphone (che a sua volta è causata dalla FOMO, fear of missing out, la paura e l’ansia di esser esclusi dai social o da chi sta facendo qualcosa di più interessante di quello che stiamo facendo noi) e alla mancanza di autocontrollo, tipica nelle dipendenze.
In realtà, tale spiegazione, peraltro ampiamente condivisa, è solo parziale e può interessare i giovanissimi. Più in generale il phubbing è la conseguenza del fatto che lo smartphone è diventato uno dei tanti modi con cui si cerca di riempire la propria vita, partendo da una realtà non pienamente soddisfacente, infatti nessuno presta attenzione allo smartphone se sta facendo qualcosa di estremamente interessante.
Lasciare acceso lo smartphone durante la propria vita privata è indice di essere disponibili alla consultazione e ciò identifica il nostro grado di insoddisfazione esistenziale.
Ci sono soggetti che sono immuni dal phubbing semplicemente perché praticamente in gran parte della giornata non hanno tempo di rispondere a chiamate o a sms. Come per le mail, accendono il cellulare, vedono i messaggi, rispondono e poi lo rispengono tornando a fare qualcosa di più coinvolgente.
In conclusione escludere l’altro dal tuo mondo interiore ti porterà prima a logorare le relazioni e poi a perderle. Perciò anziché rifugiarti nel telefono prova ad ascoltare il disagio che stai vivendo. Accettare la realtà è il primo passo per affrontarla. Potresti scoprire che esserci veramente ti è più difficile di quanto pensavi ma che quando ci metti attenzione riesci a farlo.