Il vero prezzo del fast fashion: l’impatto dei nostri vestiti sui paesi più poveri

Ogni volta che facciamo un acquisto non scegliamo solo un abito, ma anche come trattare le persone e l’ambiente. Mantenere alti i profitti e bassi i costi costa all’industria del fast fashion contraddizioni e ingiustizie.
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Beatrice Barra 31 Marzo 2023

Hai mai sentito parlare dei "vestiti dell'uomo bianco morto"? Così in Ghana sono chiamati gli abiti di seconda mano. Sono gli indumenti che i paesi industrializzati scartano, raccolgono e spediscono verso i paesi in via di sviluppo.

Fonte: Alison Mckellar

Quella che è iniziata, sessant'anni fa, come l’intuizione di un uomo d'affari statunitense si è trasformata oggi in una fonte di reddito per Accra, la capitale del Ghana. Qui c’è il mercato di Kantamanto, probabilmente il più esteso mercato di seconda mano del mondo, dove arrivano ogni settimana circa 15 milioni di capi di abbigliamento. Sono talmente tanti che, secondo la gente del posto, solo la morte potrebbe portare qualcuno a disfarsi di così tanti indumenti.

Ma dietro questo mercato si nasconde uno dei più grandi sistemi di produzione capitalistici: l’industria del fast fashion.

Come nasce il Fast Fashion

Per capire dove nasce il fenomeno, bisogna tornare indietro fino all’Ottocento, quando nascono le prime industrie tessili e vengono creati i primi abiti realizzati in serie. Erano destinati alle donne della classe media, dato che quelle più ricche si rivolgevano perlopiù a botteghe di sartoria e quelle più povere si cucivano i vestiti da sole. L’impiego della macchina da cucire, brevettata nel 1846, portò a un’improvvisa velocizzazione della produzione di indumenti dando il via a un sistema che permetteva di creare tanti vestiti uguali e suddivisi per taglie generiche, anziché fatti su misura.

L’industria della moda, però, è andata a rilento fino agli anni50: è stato allora che i giovani, forse per opporsi alle abitudini dei genitori, iniziarono a desiderare abiti nuovi e non più i vestiti rimaneggiati dei loro fratelli più grandi. È proprio in questo periodo che nascono i primi negozietti, quelli che poi sono diventati i grandi marchi. Ma il termine “fast fashion” farà la sua comparsa solo il 31 dicembre 1989, in un articolo del New York Times. In occasione dell’apertura di un nuovo store di una nota catena, il magazine coniò infatti questo termine per descrivere una grande novità: ora ci volevano solo 15 giorni tra l’ideazione di una linea di vestiti e l’arrivo della collezione in negozio.

In cosa consiste il fast fashion

Letteralmente fast fashion significa “moda veloce”: è un modello di produzione che permette alle aziende di progettare, realizzare e distribuire, in tempi molto brevi, una grande quantità di vestiti. Copiando gli ultimi stili delle passerelle, queste imprese ripropongono modelli a prezzi accessibili per il grande pubblico che altrimenti non potrebbe permetterseli.

Fonte: Christopher Macsurak

Oltre alla produzione però, la velocità, nel fast fashion, fa riferimento anche alla facilità con cui si sostituiscono i vestiti. I prodotti sono, infatti, progettati con l'intenzione di durare solo circa 10 lavaggi. Tenendo conto di questo, i designer si concentrano sulla realizzazione di tanti articoli di tendenza, senza prestare troppa attenzione alla qualità del tessuto, il che consente di mantenere i prezzi dei prodotti molto bassi e di promuovere un continuo ricambio, tipico di un atteggiamento “usa e getta”.

Fonte: Fahad Faisal

La logica che sta alla base del fast fashion è: poco importa se una camicetta non ci convince del tutto. La compriamo, tanto costa poco, e se non la mettiamo non dobbiamo sentirci in colpa perché non ci abbiamo perso granché. Tuttavia dietro quella camicetta c’è molto di più.

Cosa si nasconde dietro i vestiti di tendenza a basso costo

Ti sei mai chiesto come mai nella maggior parte delle etichette c’è scritto “Made in Bangladesh”?

La manodopera a basso costo

È proprio in Paesi come India, Bangladesh, Pakistan o Cina, che per mantenere alti i profitti e bassi i costi, i marchi negli anni hanno iniziato a spostare la produzione. Qui c’è grandissima disponibilità di manodopera a basso costo, tant’è che le locali fabbriche produttrici di abbigliamento competono tra di loro in una corsa verso il basso.

Fonte: Forgeresearch

Migliaia di uomini, donne e bambini provenienti, nella maggior parte dei casi, dalle aree più rurali, vengono convinti a lavorare nelle fabbriche con la promessa di un lavoro ben retribuito, un alloggio confortevole e tre pasti nutrienti al giorno. La realtà però è ben diversa: lavorano in condizioni pessime, non sicure (a causa delle sostanze chimiche impiegate), con orari massacranti e salari bassissimi.

L'impatto ambientale

L'industria della moda ha poi anche un enorme impatto sull'ambiente. Produce circa il 4% delle emissioni di CO2 globale, un numero gigantesco ma che si spiega con il fatto che l'industria tessile richiede 43 milioni di tonnellate di sostanze chimiche all'anno, compreso il petrolio (più o meno 342 milioni di barili ogni anno) per produrre fibre sintetiche, fertilizzanti per coltivare il cotone e prodotti chimici per produrre, tingere e rifinire fibre e tessuti.

Fonte: Fahad Faisal

Per non parlare dell’enorme consumo di acqua. Tutta la filiera produttiva di vestiti (compresa la coltivazione del cotone) utilizza circa 93 miliardi di metri cubi d'acqua all'anno, contribuendo ad aggravare ulteriormente i problemi in alcune regioni con scarsità d'acqua. Ma non solo, l’utilizzo di tintura e il trattamento dei tessuti causa il 20% dell'inquinamento idrico industriale a livello globale.

E per non farsi mancare nulla, negli ultimi anni, l'industria tessile è stata identificata come uno dei principali contributori al problema della plastica che entra nell'oceano. Circa mezzo milione di tonnellate di microfibre di plastica vengono disperse durante il lavaggio di tessuti a base di plastica, come poliestere, nylon o acrilico, finendo ogni anno nell'oceano.

Perché tutto questo rimane impunito?

Arrivato a questo punto ti starai chiedendo com'è possibile che tutto questo avvenga in maniera impunita. Semplicemente i grandi marchi hanno delle catene di fornitura talmente vaste e dislocate – in decine di paesi del mondo – che è quasi impossibile tracciarle rigorosamente. Il risultato è una distribuzione disomogenea delle conseguenze ambientali. I paesi in via di sviluppo, essendo il centro produttivo di gran parte dell'abbigliamento, subiscono i peggiori effetti ambientali, al contrario dei paesi sviluppati che però consumano la maggior parte dei prodotti.

Fonte: USAID, Ghana

Insomma, la domanda di vestiti dei consumatori occidentali svantaggia i paesi più vulnerabili.

Purtroppo, la traiettoria che sta prendendo il settore della moda fast fashion ha esiti potenzialmente catastrofici. La domanda di abbigliamento continua a crescere rapidamente: dal 2000 al 2015 la produzione di abbigliamento è quasi raddoppiata e le vendite totali di abbigliamento potrebbero raggiungere i 160 milioni di tonnellate nel 2050. Non sono stime incoraggianti se si pensa che meno dell'1% del materiale utilizzato per produrre abbigliamento viene riciclato in nuovi vestiti. Pensa che, ogni secondo, l'equivalente di un camion della spazzatura carico di vestiti viene bruciato o seppellito in discarica.

Fonte: Ardfern

Anche in paesi con alti tassi di raccolta per il riutilizzo (come la Germania, che raccoglie il 75% dei tessuti) i vestiti vengono esportati in “mercati di salvataggio”, come appunto il Ghana, dove purtroppo, a causa della pessima qualità dei prodotti, il 40% della merce è inutilizzabile e finisca direttamente in discarica. Rendendo di fatto inutili gli sforzi.

I casi di cronaca che risvegliano la coscienza

Oggi, purtroppo, ad accendere i riflettori internazionali sugli impatti sociali e ambientali collegati all’industria dell'abbigliamento sono quasi solo gli incidenti e i casi di cronaca. Un esempio è il disastro del Rana Plaza, nel 2013, quando un edificio di otto piani del Bangladesh ha subito un cedimento strutturale, dovuto al peso dei numerosi macchinari tessili, uccidendo oltre 1.000 lavoratori. Proprio per questo le istituzioni stanno chiedendo ai grandi brand dell’industria del fast fashion di allontanarsi dal sistema lineare in cui sono imprigionati, spronandoli a cercare materiali rinnovabili o riciclati per produrre abiti, che possano essere utilizzati per un lungo periodo, contrastando così un sistema che inquina l'ambiente e aumenta le diseguaglianze sociali.

Fonte: Uphold The Needy Uganda

Fortunatamente, la risposta soprattutto delle generazioni più giovani non si è fatta attendere. Il mercato della seconda mano rappresenta già dal 3% al 5% dell'abbigliamento, delle calzature e degli accessori e si prevede che crescerà del 127% entro il 2026, ovvero tre volte più velocemente del mercato globale dell'abbigliamento in generale.

Fonte: Lewis, George P

Solo osando cambiare, non solo il look, ma anche le nostre abitudini, riflettendo sulle nostre responsabilità sociali e prendendo consapevolezza sugli effetti ambientali, possiamo trasformare il settore e creare un nuovo equilibrio tra le comunità di tutto il mondo.