Le microplastiche sono ovunque, anche nel cibo che riscaldiamo al microonde

Quante microplastiche ci sono nel cibo che mangiamo? Studi recenti hanno dimostrato che il problema della plastica va ben oltre ciò che possiamo vedere a occhio nudo, dal momento che le sue particelle possono essere anche più piccole di un micron.
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Rubrica a cura di Letizia Proserpi
25 Gennaio 2023

Nel 2022, mentre erano a lavoro, alcuni scienziati hanno fatto una scoperta che ha sconvolto il loro modo di pranzare: hanno scoperto che il contenitore di plastica che riscaldavano al microonde spargeva tantissime microplastiche sul cibo. Letteralmente scioccati da questa cosa hanno deciso di studiarla e si sono accorti che shakerare un liquido caldo in un biberon di plastica rischia di far ingerire a un bambino un milione di microplastiche al giorno. A rendere pubblica questa vicenda è stato Dunzhu Li, un ricercatore dell’Università di Dublino, che ha mostrato le microplastiche presenti sul suo contenitore. Viene da chiedersi quante microplastiche ingeriamo ogni giorno e che conseguenze abbiano sulla nostra salute.

Dove si trovano le microplastiche?

Cominciamo dicendo che gli effetti che possono avere sul nostro corpo ancora non si conoscono per certo, ma praticamente ogni giorno gli scienziati fanno nuove scoperte sulle microplastiche. Di sicuro i casi del contenitore nel microonde e del biberon ci dovrebbero far riflettere sul fatto che le microplastiche sono ovunque, anche se non le vediamo a occhio nudo. Sono persino nel sale, nell’acqua potabile, nella birra, nell’aria e, come pioggia, ricadono nel mare e sulle montagne. E da dove vengono? Se prendiamo tutta la plastica che abbiamo prodotto fino a oggi, oltre 5 miliardi di tonnellate si sono degradate in particelle sempre più piccole, senza però mai scomparire del tutto. Quindi più andiamo avanti più le microplastiche aumenteranno. Gli oceanografi hanno stimato che in fondo al mare ci sono da 15 a 50 trilioni di microplastiche (1 trilione equivale a un miliardo di miliardi). Gli scienziati l’hanno definita una vera e propria “bomba a orologeria”.

La scoperta delle microplastiche

Pensate che noi fino ai primi anni 2000 abbiamo vissuto ignari di tutto questo, pensando che il problema fosse la plastica che galleggiava in acqua. Quando invece quella era solo la punta dell’iceberg. Nel 2003 fu Richard Thompson, dell’Università di Plymouth, il primo a scoprire le microplastiche. Raccogliendo campioni di sabbia da 17 diverse spiagge del Sud dell’Inghilterra Thompson scoprì che molti dei granelli che aveva raccolto non erano veramente granelli di sabbia, ma frammenti di plastica. Erano così piccoli – inferiori a 5 millimetri – che li ribattezzò con la parola “microplastiche”.

Fino a quel momento eravamo tutti convinti che la plastica fosse un problema “visibile”, e quindi tutto sommato risolvibile in qualsiasi momento. Con gli studi di Thompson si iniziò a capire che la realtà era molto diversa. Dobbiamo immaginare che per esempio una bottiglia di plastica è una specie di puzzle, composta da milioni di pezzi. Questi pezzi si chiamano monomeri che tenuti insieme da legami chimici formano i polimeri. Quando si parla di polimeri si intende il materiale di cui si compongono le plastiche. Dicendo che la plastica si degrada, si intende che i legami chimici si rompono e il puzzle inizia a perdere i pezzi che si diffondono nell’ambiente. Thompson trovò tra quei granelli tanti polimeri di natura diversa, almeno otto in un fazzoletto di sabbia. E da questo capì che quei frammenti erano pezzi di più puzzle: c’erano i polimeri delle reti da pesca, ma anche quelli delle microsfere contenute nei cosmetici e persino di materiale usato per l’abbigliamento. Le microplastiche, insomma, provengono dalla nostra vita di tutti i giorni, come possono essere un lavaggio di capi sintetici in lavatrice o uno pneumatico che striscia sull’asfalto.

Dalle microplastiche alle nanoplastiche

Le microplastiche scoperte da Thompson nel 2003 includono tutte le particelle di plastica inferiori a 5 millimetri. Dopo Thompson la particella più piccola mai rilevata misurava 1 micron, ovvero la millesima parte di un millimetro. Dimentichiamo il microscopio. Particelle così piccole si possono individuare solo con lo spettrometro, che è in grado di distinguerle in base alla diversa interazione con la luce. Qualcuno pensava che quella fosse l’ultima matrioska, invece non era così. Nel 2017 un gruppo di ricercatori prese un campione di acqua di mare, lo filtrò fino a rimuovere tutti i frammenti di microplastiche grandi 1 micron. Bruciarono il campione rimanente e passandolo sotto lo spettrometro rilevarono ancora la presenza di plastica, scoprendo così particelle addirittura più piccole di un micron. Le chiamarono nanoplastiche, frammenti di plastica che possono arrivare fino a un millesimo di micron, la milionesima parte di un millimetro. Il problema è che non esiste oggi uno strumento in grado di misurare la grandezza e la forma di queste nanoplastiche e di conseguenza trovarle e analizzarle al momento è quasi impossibile. Roman Lehner, uno scienziato che si occupa proprio dello studio di nanomateriali, ha detto al riguardo una frase emblematica: “È come cercare un ago in un pagliaio, ma con l’ago che somiglia al fieno”.

Possibili rischi

Sono state rilevate tracce di microplastiche nell’intestino, nei tessuti del nostro corpo, nel circolo sanguigno o addirittura nella placenta delle donne in gravidanza e nel latte materno. Pensate allora dove potrebbero arrivare le nanoplastiche che sono addirittura più piccole di una cellula. Ad oggi non sono ancora chiare quali siano le conseguenze sulla salute. Quello che sappiamo è che per le microplastiche il principale rischio potrebbe essere l’infiammazione che potrebbe derivare dalla composizione chimica. Inoltre le microplastiche possono anche diventare vettori di additivi chimici tossici e agenti patogeni. Alcuni monomeri – i pezzetti di puzzle di cui ti parlavo prima – sono particolarmente dannosi: ad esempio il Bisfenolo A (BPA) imita il comportamento di alcuni ormoni e quindi può rompere l’equilibrio del nostro sistema ormonale. Alcuni additivi della plastica, come gli ftalati, si comportano anch’essi da interferenti, e sono stati associati a difetti del neurosviluppo nei bambini, al diabete, a problemi di fertilità in uomini e donne, all’obesità e a problemi dell’apparato respiratorio.

Un processo irreversibile

Tutte queste cose ci dovrebbero far rendere conto di essere di fronte a un processo irreversibile. I ricercatori hanno previsto che fino al 2040 la plastica sparpagliata a terra e nelle discariche potrebbe aumentare di 380 milioni di tonnellate. Alle parti continuamente erose dei rifiuti esistenti si aggiungerebbe una nuova quantità spropositata di microplastiche. Se ora è un po’ più chiaro quanto grave sia la situazione, forse dovremmo capire perché il riciclo è fondamentale per rallentare questo processo. Usiamo per pochi minuti oggetti di plastica che impiegano centinaia di anni per degradarsi. I ricercatori hanno calcolato che se le misure approvate nel 2020 per il riciclaggio della plastica venissero applicate da tutti, entro il 2040 potrebbero essere prodotte “solo” 140 milioni di tonnellate in più rispetto alle 380 milioni previste. Il che vorrebbe dire miliardi di microplastiche in meno nel futuro dei nostri figli. Prendere consapevolezza di una verità scomoda come l’esistenza di questo problema è il primo passo per affrontare in maniera costruttiva il futuro. Un problema che ci riguarda tutti, anche se non lo vediamo ad occhio nudo.

Questo articolo fa parte della rubrica
Laureata in Medicina e Chirurgia nel 2021 presso l’Università degli Studi di Pavia con tesi in Neurologia Pediatrica dal titolo “Impatto altro…