Nucleare fa rima con ambiente? “Sì. E con l’atomo e le rinnovabili possiamo battere il climate change”: parola del professor Ricotti

Si può davvero usare la parola green nella stessa frase con energia atomica? Insieme al professor Marco Enrico Ricotti, ordinario di impianti nucleari al Politecnico di Milano, abbiamo provato a ragionare su cosa servirebbe per avviare quella transazione energetica che auspichiamo ormai da anni. E uno degli attori principali in questa storia non può che essere il nucleare.
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Nucleare e ambiente. Mettiamolo subito sul tavolo, anche perché in una rubrica che vuol tentare di dare conto delle luci e delle ombre dell’atomo, il tema dell’impatto ambientale dell’energia nucleare è l’emblema di questo dualismo, la rappresentazione più limpida delle famose due facce che hanno ispirato i primi passi di questa serie di approfondimenti.

Ne abbiamo discusso con il professor Marco Enrico Ricotti, ordinario di impianti nucleari al Politecnico di Milano, membro designato dell’Agenzia per la Sicurezza Nucleare ed ex presidente di Sogin, la società statale che si occupa del decommissioning delle centrali nucleari italiane e della gestione dei rifiuti radioattivi.

E lo abbiamo fatto con un caffè digitale in una mattinata di luglio, interrogandoci se nucleare può davvero far rima con green, quanto e in che modo una centrale impatta sull’ambiente, quali potrebbero essere le strade per mettere in moto l’agognata transazione energetica e infine se l’atomo ha o può avere un ruolo nella partita in difesa del nostro Pianeta.

Indagare questa relazione è come prendere una matassa di elastici e provare a sbrogliarla, stando attenti ai pizzicotto sulle mani quando si tira l’elastico sbagliato. E tra rilevamenti di temperatura all’ingresso di un edificio (lui) e la girandola di domande nella testa (il sottoscritto), il caffè si è prolungato e si è fatta quasi l’ora del pranzo.

Anche perché provare a capire dove e se nucleare e ambiente s’incontrano non può prescindere, per esempio, da riflessioni sull’economia, sulle strategie della comunicazione politica o dell’informazione mediatica e da qualche sassolino tolto dalla scarpa. Ecco, la chiacchierata è andata più o meno così.

Professor Ricotti, nel cercare di dare una prima direzione al rapporto tra l’energia atomica e la sostenibilità ambientale ci si trova inevitabilmente di fronte a un profondo e radicato dato di fatto: la gente ha ancora paura del nucleare. 

Nell’immaginario collettivo nucleare civile troppo spesso viene associato a quello militare. Rimane questa sorta di peccato originale, di una tecnologia nata in tempo di guerra e che, seppur per mettere fine a un conflitto mondiale, ha richiesto all’umanità un sacrificio enorme e ingiusto. Ma il nucleare militare con quello civile centra molto poco. Anni addietro abbiamo cercato di raccogliere un po’ di informazioni ma i militari sono assolutamente chiusi ad ogni tipo di interazione con l’esterno. I due mondi non si parlano e da un certo punto di vista è un bene. È ovvio però che le conoscenze dell’uno potrebbero far molto comodo all’altro.

È un sillogismo quasi automatico. Se teniamo da parte per un attimo le centinaia di migliaia di vittime dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki e pensiamo al loro impatto ambientale o a quello dei test atomici degli anni 60-70, come si fa a non essere titubanti? Dall’atollo di Bikini in poi enormi quantità di materiale radioattivo sono state disperse nella nostra atmosfera contaminando il nostro continente, e non solo.

Ancora oggi, in diverse zone della Terra, si può rilevare il fall-out radioattivo dovuto alle esplosioni atomiche dei test. Certo, dopo i trattati di non proliferazione e gli accordi internazionali le potenze del mondo hanno sospeso i test in aria o in acqua o sotto terra ma con quanto è stato fatto subito dopo Hiroshima e Nagasaki, sul pianeta è stata distribuita un bel po’ radioattività ulteriore. Ma c’è da considerare anche un altro aspetto che contribuisce alla paura.

Prego. 

Si tratta di un aspetto ovviamente positivo dal punto di vista tecnico e sanitario ma negativo per come è stato troppo spesso mediatamente manipolato: la radioattività è misurabile in modo preciso e accurato. Una piccola variazione oltre la soglia minima accettata è subito rilevabile. Ed è chiaro che è un vantaggio, se qualcosa non va possiamo rendercene conto in fretta ma ci sono altri inquinanti che ingeriamo e inaliamo tutti i gironi e che invece, non essendo così facili da identificare, ci dicono facciano meno male della radioattività. E chi ce lo dice si dimentica, fra l’altro, che la radioattività è naturalmente attorno a noi, l’uomo ci convive da quando è nato e che il nostro corpo, fino a un certo punto, si è abituato.

Qui sta parlando dell’informazione e della divulgazione. 

L’uomo è così: se non riesce a vedere qualcosa, la teme. Soprattutto se non la conosce, come nel caso della radioattività. Un cittadino normale, che di professione non è un fisico o uno scienziato, in fondo di atomi e radiazioni può non saperne nulla ed è giusto. Come è altrettanto corretto che per informarsi si affidi a chi invece conosce la materia. Ma qui sta uno dei problemi, perché gli esperti non sempre hanno veicolato l’informazione nucleare in modo asettico e corretto. Spesso si è giocato sulle paure, sul terrorismo psicologico, usando informazioni o più spesso opinioni per altri fini, diversi dalla condivisione della conoscenza.

Insomma, siamo noi che non vogliamo o non sappiamo ascoltare perché abbiamo occhi e orecchie piene di pregiudizi o c’è un problema di comunicazione? 

Negli anni passati nei rapporti con l’opinione pubblica non c’è stata molta trasparenza: il mondo nucleare non è stato capace di comunicarsi, di scendere al livello delle persone normali e avere la pazienza e la lungimiranza di accettare il dibattito. Da un lato è anche comprensibile, a quei tempi i rapporti sociali e le strategie comunicative non erano quelle di oggi, era un altro mondo. In mezzo, però, c’erano chiari interessi nazionali: la strategia energetica di uno Stato è una materia molto delicata.

E proprio in quegli anni, dopo le esplosioni giapponesi ma soprattutto in seguito all’incidente di Chernobyl, il nucleare è diventato lo spauracchio, il male dell’uomo e dell’ambiente contro cui schierarsi. Si ricorderà, per esempio, la gigantesca manifestazione del 1986, con quasi 200mila persone per le strade di Roma.

Sì, e credo che neanche allora il nucleare fosse da paragonare ai combustibili fossili. L’unico aspetto che oggi rende il nucleare interessante è proprio quello ambientale. Ci sono statistiche mondiali che rendono conto di incidenti e danni a persone e ambiente legati alle varie fonti energetiche e si legge che, nonostante Three Miles Island, Chernobyl e Fukushima, il nucleare è una delle fonti energetiche più sicure. Ci sono dati secondo cui dal punto di vista tecnico-scientifico, rinnovabili e nucleare hanno lo stesso impatto ambientale: quasi zero. E che l’atomo ha grossi benefici.

Quali? 

Il nucleare è una tecnologia già pronta, non va aspettata e non serve investire cifre inenarrabili per ottenere un risultato tecnologico pronto per il mercato. Ma soprattutto il nucleare non produce emissioni di CO2, è una forma di produzione di energia pulita, fatti salvi gli incidenti che non ci devono essere e la questione dei rifiuti, che comunque vengono gestiti e smaltiti. In più, a differenza delle rinnovabili, il nucleare è un’energia programmabile: se dovesse arrivare un buco di vento o una nuvola sopra un campo fotovoltaico, si produrrebbe un serio abbassamento nella produzione di potenza. Una centrale atomica è una macchina che può funzionare per molte ore all’anno: si stima che un reattore possa stare attivo al massimo tra il 70-90% del tempo in dodici mesi, gli impianti a turbogas, quelli eolici o fotovoltaici invece possono funzionare a piena potenza per il 40% del tempo: per produrre energia serve dunque più potenza con le rinnovabili che non con il nucleare. E poi, siccome l’energia elettrica non è stoccabile ma va prodotta e utilizzata al momento, serve una fonte stabile per bilanciare in tempo reale la richiesta con la produzione.

Tuttavia, professore, non possiamo dimenticarci i tre grandi punti deboli del nucleare, che hanno oggettivamente contribuito a metterlo sotto una cattiva luce: sicurezza, rifiuti e sostenibilità economica. 

Sono i tre argomenti su cui sarebbe opportuno avere un’informazione bilanciata, seria e asettica, in grado di mettere sul tavolo i dati e che faccia le giuste comparazioni con le alternative. Per quanto riguarda la sicurezza, risposte interessanti stanno già arrivando con i reattori di nuova generazione o con i sistemi di sicurezza passiva che non usano l’energia elettrica. L’incidente di Fukushima è collegato proprio a questo. I rifiuti sono pericolosi e radioattivi, è vero, e se dovessero entrare in contatto con l’ambiente lo danneggerebbero gravemente e ciò sarebbe inaccettabile. Però Finlandia o Svezia o ancora la Francia, per esempio, stanno dando risposte al problema del “dove mettiamo i rifiuti”, costruendo depositi nazionali. Anche l’Italia dovrebbe dotarsene ma da noi la situazione è diversa. Siamo l’unico paese ancora senza un deposito nazionale, la politica e l’opinione pubblica non riescono a capire che sì, abbiamo bisogno di un deposito dove garantire in sicurezza lo stoccaggio dei rifiuti. Uno stato poi può avere un reattore sicuro ed essere in grado di gestire i rifiuti, ma se la tecnologia non è sostenibile finanziariamente è un problema. E anche qui c’è ancora da lavorare. Noi occidentali non siamo più abituati e allenati a costruire reattori, ci mettiamo più tempo e spendiamo molto di più. Cinesi, giapponesi, coreani o russi, invece, non hanno mai arrestato il loro nucleare, hanno sviluppato tecnologie e industrie sempre migliori e oggi sono molto più sostenibili e competitivi. È un circolo vizioso.

Ma una transizione energetica basata sul connubio tra rinnovabili e nucleare sarebbe la soluzione green per garantirci un futuro comunque più sostenibile?

È un’ipotesi che garantirebbe la produzione di energia stabile, certa e sicura, compatibile con l’ambiente e a costi contenuti. Ma dipende da diversi fattori, in primis dall’opinione pubblica: siamo ancora molto divisi, timorosi e preoccupati specialmente del tema della sicurezza nucleare. E non vanno poi dimenticate le linee strategiche politiche dei paesi. Alcuni, per esempio, hanno già messo in campo progetti energetici che contemplano l’unione di rinnovabili e nucleare. Penso all’Arabia Saudita e al loro piano al 2050 per abbandonare l’utilizzo di combustibili fossili in favore di un 50-50 tra rinnovabili e atomo. Così come gli Emirati Arabi o ancora la Finlandia: si tratta di scelta condivise tra politica e cittadini.

Secondo lei che cosa serve per poter vedere questo modello energetico anche in Italia? 

È importante risolvere prima dei problemi di comunicazione. I cittadini vanno informati con trasparenza, e bisogna coinvolgere i giovani. Le nuove generazioni non hanno i bias di Chernobyl, non hanno pregiudizi ideologici e anzi, hanno la mente sgombra per poter giudicare loro stessi se la strategia è giusta oppure no. Era un clima che respiravo prima di Fukushima, c’era una valutazione onesta dei pregi e dei difetti dell’energia nucleare, i giovani guardavano a quest’ipotesi facendo domande e volendo capire, c’era un’atmosfera sana e costruttiva. E credo che nei prossimi anni potrebbe riaccendersi, a patto che il nucleare mantenga le promesse e non ci siano altri incidenti.

Professor Ricotti, non giriamoci più attorno: il nucleare può davvero avere un ruolo nella lotta al climate change?

Tecnicamente sì, è dimostrato dai numeri. Se l’obiettivo è stoppare i cambiamenti climatici, rinnovabili e nucleare sono la soluzione, soprattutto seguendo le linee del green deal e di questa spinta giusta all’elettrificazione dei trasporti o, come già successo in Francia, del riscaldamento. Pensiamo alle grandi città italiane e di quanto, in inverno, il tema del riscaldamento impatti in termini di particolato e mobilità: spostare gran parte della mobilità sull’elettricità sarebbe una scelta giusta. Ma l’elettricità va prodotta senza emettere CO2: come? Rinnovabili e nucleare.

Magari spingendo anche sulle novità che potrebbero arrivare nell’universo dell’energia atomica, per esempio la fusione o le centrali al Torio? 

Queste sono alcune delle innovazioni che potrebbero davvero contribuire a una maggior sostenibilità ambientale. Per quanto riguarda la fusione, non ci sono mai stati problemi sugli investimenti e i progetti procedono. Si sta ragionando anche su impianti con un combustibile diverso, non più l’Uranio ma appunto il Torio. La grossa novità riguarderebbe la produzione dei rifiuti nucleari. Anche se in poche quantità all’anno, con un reattore convenzionale si creano rifiuti radioattivi legati agli elementi transuranici: sono più grossi dell’Uranio e hanno la brutta caratteristica di essere emettitori di particelle alfa, caratterizzate da un’elevata radiotossicità che poi dura per millenni. Con il Torio non si arriverebbe fino alla produzione di questi radionuclidi e i rifiuti radioattivi avrebbero una vita più breve.

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Giornalista fin dalla prima volta che ho dovuto rispondere alla domanda “Cosa vuoi fare da grande”. Sulla carta, sono pubblicista dal altro…