Quanto inquina (davvero) l’industria della carne?

Quando si parla di transizione ecologica, il capitolo alimentazione viene puntualmente saltato. Eppure il solo comparto degli allevamenti intensivi è responsabile del 15% di tutte le emissioni di gas serra. E dietro agli incendi in Amazzonia ci sono soprattutto le multinazionali della carne. Il problema? Ne mangiamo quattro volte più di quella che dovremmo effettivamente consumare.
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Giulia Dallagiovanna 19 Agosto 2022

Non più di 20 chilogrammi di carne all'anno, meglio se bianca. È la quantità prevista per ciascuno di noi dalla dieta mediterranea. 80 chilogrammi in media a testa è quella consumata effettivamente nei Paesi dell'Unione europea, stando a un'indagine dell'Università di Bonn pubblicata ad aprile su Annual Reviews. Quattro volte tanto. Dagli anni '60 a oggi abbiamo drasticamente modificato le nostre abitudini alimentari, arrivando a portare in tavola più del doppio della quantità di carne che i nostri nonni si trovavano nel piatto. Il problema dell'impatto di bistecche, salumi e insaccati sul Pianeta sta proprio nella nostra incapacità di porre un limite.

Nel frattempo, la popolazione globale è passata dai 3 miliardi del 1960 ai 7,7 del 2020. Lo U.S. Census Bureau stima che entro 30 anni potremmo ritrovarci a essere più di 10 miliardi di persone. "È difficile immaginare come fornire a una popolazione di 10 miliardi di persone, o più, le stesse quantità di carne attualmente consumate nella maggior parte delle nazioni ad alto reddito, senza effetti negativi sostanziali sull'ambiente", hanno sottolineato alcuni ricercatori dell'Università di Oxford a margine di uno studio sul rapporto tra alimentazione, salute e ambiente.

Parlare di transizione ecologica senza affrontare il tema di cosa mangiamo ogni giorno significa ignorare il responsabile di una grossa fetta di inquinamento. Tanto per fare un esempio, tra il 2010 e il 2019 più del 95% dei polli che abbiamo mangiato proveniva da allevamenti intensivi. Un'abitudine che si traduce in aumento di emissioni di gas serra, deforestazione, consumo di suolo e di acqua. E naturalmente nelle drammatiche condizioni di sfruttamento in cui vengono allevati gli animali.

L'impatto della carne sul Pianeta

Il quinto rapporto Ipcc, pubblicato nel 2014, riconduceva all'intero comparto delle attività agricole (agricoltura, silvicoltura e altre forme di utilizzo del suolo) la responsabilità del 24% delle emissioni inquinanti totali. La FAO ha invece isolato il solo settore zootecnico, indicandolo come la fonte del 15% dell'intera produzione di gas serra di origine antropica.

Gli allevamenti intensivi sono responsabili del 15% delle emissioni totali di gas serra

Entrando più nel dettaglio, l'Organizzazione dell'alimentazione e dell'agricoltura delle Nazioni unite (la Fao, appunto) attribuisce il 45% delle emissioni alla produzione e alla lavorazione dei mangimi, il 39% ai gas derivanti dai processi digestivi e dalle deiezioni degli animali e un 10% allo stoccaggio e alla gestione del letame. Il restante 6% è composto da altri fattori minori, ad esempio il trasporto.

Non tutti consumiamo allo stesso modo

Quando parliamo di carne, ci riferiamo naturalmente alle classiche bistecche, ma anche ad alimenti processati come i salumi, gli insaccati e i prodotti in scatola, così come a quelli ultraprocessati, ad esempio würstel e hamburger. Per i nostri nonni era un cibo per ricchi. Lo si portava in tavola nei giorni di festa o in altre rare occasioni e il consumo annuale non arrivava a superare una media di 23 chilogrammi a testa.

Ora le quantità crescono a un ritmo esponenziale. Per il 2050 le Nazioni Unite hanno già previsto un raddoppio del consumo globale di pollo, un aumento del 69% di quello di manzo e del 42% per quanto riguarda la carne di maiale. Numeri semplicemente insostenibili.

Ma quando si parla di cifre e statistiche bisogna prestare attenzione. Se infatti da un lato è aumentata la quantita di persone che riesce ad avere accesso alla carne, è pur vero che la differenza tra i Paesi ad alto reddito e quelli in via di sviluppo rimane elevata. Nel 2019 Our World in Data, piattaforma gestita dall'Università di Oxford, poneva l'Australia e gli Stati Uniti al primo posto per consumo di carne, con più di 120 chilogrammi a testa ogni anno. In fondo alla classifica gli Stati africani, con una media di 20 chilogrammi a testa, anche se in molte nazioni non venivano superati i 10. L'Italia, assieme al resto dell'Unione europea, si collocava attorno agli 80 chilogrammi pro capite.

Seguendo la geografia della carne, possiamo vedere come in prospettiva il consumo sia comunque cresciuto soprattutto nelle aree più povere del Pianeta. Per tornare all'Africa, nell'intero continente si è passati dai 3,91 milioni di tonnellate del 1961 ai 20,17 milioni del 2018. Quasi cinque volte tanto. In Europa invece è "solo" raddoppiato. Ma è in Asia che il divario diventa impressionante: se nel 1960 si mangiavano 9 milioni di tonnellate all'anno, oggi se ne mangiano 143,71.

E proprio il continente asiatico è diventato il principale produttore di alimenti di origine animale, arrivando a coprire il 45% della produzione globale. Europa e Stati Uniti sono fermi al 15-20%.

Il metano e l'effetto serra

Sì, ma perché l'industria della carne ha un impatto ambientale così alto?

La prima fonte di inquinamento è l'emissione di gas climalteranti e in particolare di metano (CH4), che contribuisce per l'8% all'effetto serra. Nel 2013 la Commissione europea riportava che il solo allevamento intensivo dei bovini, in tutti i suoi aspetti, era responsabile del 41% dell'ammoniaca (NH3) e del 2% del metano rilasciati nell'atmosfera.

Per il Global Carbon Project, il metano è 28 volte più potente dell'anidride carbonica nell'intrappolare calore nell'arco di 100 anni, contribuendo così in maniera significativa al riscaldamendo globale. Questo gas si forma mentre il letame si decompone, oppure durante una parte del processo digestivo dei ruminanti chiamato fermentazione enterica, che avviene quando i microbi presenti nell'intestino dell'animale provocano la fermentazione del cibo ingerito.

Per questo motivo, l'allevamento di bovini è considerato da più parti il più impattante in assoluto. Lo European Data Journalism network, di cui fa parte anche Il Sole 24 Ore, ha messo insieme un po' di numeri legati all'inquinamento prodotto dagli alimenti che compongono la nostra dieta e li ha convertiti in CO2 equivalente, un'unità di misura che permette di confrontare i diversi gas climalteranti. Ne è emerso che i cibi più dannosi per il Pianeta sono la carne di manzo, quella d'agnello e il formaggio, soprattutto se derivato da latte vaccino.

Un'analisi dettagliata della carbon footprint degli alimenti, che considera tutti i passaggi, trasporto compreso, attribuisce a un chilo di carne di manzo il consumo di 59,6 kg di CO2, al fomaggio 29,7 kg, mentre alle lenticchie solo 0,89. Assieme a questi legumi, in fondo alla lista troviamo anche broccoli, tofu, patate e riso.

Secondo l'Ufficio federale dell'ambiente svizzero, la distribuzione delle emissioni suddivisa per specie animali dovrebbe corrispondere più o meno a questa:

  • bovini: 77%
  • suini: 15%
  • pollame: 5%
  • altri (pecore, capre, cavalli, ecc.): 3%

Ma l'inquinamento dovuto all'industria della carne non si esaurisce al metano.

L'ammoniaca

La gestione delle deiezioni è tra gli aspetti più delicati e critici del settore dell'allevamento. Questo materiale, decomponendosi, rilascia abbondanti dosi di ammoniaca che in parte si disperdono nell'aria e vengono trasportate dal vento. Durante il processo l'ammoniaca, che è triidruro di azoto, dà forma al protossido d'azoto, un elemento che si rideposita sul suolo o nei bacini idrici alterando gli ecosistemi. Può provocare sia un'eccessiva fertilizzazione, o eutrofizzazione, dove una specie vegetale prevale sulle altre, sia un'acidificazione dell'ambiente che ostacola invece la sopravvivenza degli esseri viventi.

"Il 94% delle emissioni complessive di ammoniaca in Svizzera proviene dal settore agricolo – prosegue l'UFAM. – La quota attribuibile all'allevamento di animali è del 93%, quella della coltivazione di piante è del 7%. Tra il 1990 e il 2020, le emissioni di ammoniaca in agricoltura sono diminuite del 22%. Il calo maggiore è stato registrato prima del 2004, a causa della diminuzione del numero di animali e del minore utilizzo di fertilizzanti azotati".

Il consumo di acqua

Nell'Europa stretta nella morsa della siccità (come del resto lo sono diverse parti del mondo), l'acqua sta diventando un bene sempre più prezioso.

All'inizio dell'estate i social sono stati invasi da grafiche che riportavano quanti litri di oro blu fossero necessari per produrre gli alimenti principali della nostra dieta quotidiana. I numeri facevano riferimento a un noto studio del Water footprint network, secondo il quale un chilo di carote richiedeva 300 litri d'acqua, un chilo di cereali 1.600, mentre la carne più di 15mila.

Questi risultati devono però essere analizzati meglio. Prima di tutto, i 15mila litri sono da ricondursi solo alla carne bovina, mentre quella ovina ne consumerebbe 8.700, quella di maiale poco meno di 6mila e quella di pollo 4.300. Inoltre, il calcolo del Wfn si basa sulla cosiddetta "acqua virtuale", composta dalla somma di acqua "blu", prelevata da falde sotterranee o bacini idrici superficiali, acqua "verde", che deriva dalle precipitazioni, e infine acqua "grigia", il volume necessario per diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione. Il settore dell'allevamento utilizzerebbe soprattutto la componente verde, che arriva a coprire l'80-90% del totale. La principale obiezione è quindi che l'acqua derivante dalle precipitazioni viene intercettata dalle colture, ma rimane all'interno dei normali cicli della natura. Insomma, non viene davvero consumata.

Sulla base di questa considerazione, c'è chi ha provato a rivedere i risultati e a ridurre le stime: l'acqua che effettivamente va persa sarebbe tra gli 800 e i 5mila litri, nei sistemi meno efficienti. Stiamo comunque parlando di quantità molto elevate. Oltre al fatto che l'ultimo inverno, senza neve e senza pioggia, ci ha dimostrato come nemmeno le precipitazioni possano più essere sprecate.

La domanda resta: a cosa serve tutta quest'acqua? No, non solo per dare da bere agli animali, ai quali per la verità arriva solo una minima parte. La porzione più grande è destinata all'irrigazione dei campi dove vengono coltivati gli alimenti necessari a comporre una dieta, pensata per accelerare il più possibile l'aumento della massa corporea dell'animale.

La deforestazione

Secondo la FAO, gli allevamenti occupano il 70% di tutti i terreni agricoli presenti nel mondo e coinvolgono il 26% dell'intera superficie del Pianeta, ghiacciai inclusi. Nel calcolo è compreso non solo il suolo effettivamente ricoperto dagli stabilimenti, ma anche quello necessario ai campi coltivati per ricavare il mangime. Nel 2019 Greenpeace ha confermato che quasi tre quarti di tutta la superficie agricola dell'Unione europea era destinata alla produzione di mangimi e foraggio per gli animali degli allevamenti. Facendo un rapido paragone, le carni consumano in media tra le 3 e le 12 volte il suolo agricolo impiegato per la coltivazione, ad esempio, dei legumi.

Ogni anno vengono distrutti tra i 280 e i 320 chilometri quadrati di foresta Amazzonica

E se aumenta la domanda di carne, diventano necessari più ettari di terreno. Per trovarli, non di rado si ricorre alla deforestazione. L'industria della carne è tra le maggiori responsabili degli incendi che stanno distruggendo la foresta Amazzonica. Nello stato brasiliano del Mato Grosso, ad esempio, il fuoco si appicca per fare posto ai pascoli, mentre in altre regioni del Paese lo spazio disboscato è stato occupato dalle monocolture di soia. In un'indagine del 2019 il Guardian denunciava come ogni anno venissero distrutti tra i 280 e i 320 chilometri quadrati di foresta per lasciare campo libero alle coltivazioni che dovevano sfamare gli animali negli allevamenti. Tra il 2020 e il 2021 è andata persa un'area di oltre 13mila chilometri quadrati, la più estesa degli ultimi 15 anni.

Ma questo fenomeno non si verifica solo in Amazzonia. Il Brasile è il primo esportatore di carne bovina al mondo, il secondo è l'Argentina. Qui si trova il Gran Chaco, la seconda foresta tropicale più estesa dell'America Latina, vittima di uno dei più alti tassi di deforestazione al mondo. I due Stati, inoltre, coprono il 70% delle esportazioni totali di soia destinata ai mangimi per i polli.

"Le foreste catturano circa un terzo dell’anidride carbonica rilasciata ogni anno a causa della combustione di gas, petrolio e carbone. Se vogliamo evitare l’aumento delle temperature oltre il grado e mezzo, dobbiamo esigere che ciò che resta delle foreste venga protetto", ha commentato Martina Borghi, responsabile della campagna foreste di Greenpeace Italia.

Quanto vale la carne?

Il Meat Atlas 2021 ha dipinto uno scenario piuttosto chiaro: le prime 20 aziende zootecniche del mondo sono responsabili di emissioni di gas serra più elevate di quante ne producano, da soli, interi Stati come la Germania, la Francia o il Regno Unito. Si parla di un totale di 932 milioni di CO2 all'anno, rispetto, ad esempio, ai 902 milioni della Germania. Più di un quarto di queste emissioni sarebbero attribuibili alla multinazionale brasiliana JBS, che è anche la più grande al mondo per volumi di vendite. Parliamo di un'azienda che tra i suoi prodotti può vantare, ad esempio, la bresaola della Valtellina o il Prosciutto San Daniele D.O.P.

Ma c'è di più. Le prime cinque aziende zootecniche messe insieme emettono più anidride carbonica delle multinazionali del petrolio come Exxon, Shell e Bp. Big Meat insomma può diventare addirittura più dannosa di Big Oil. Come mai allora i governi non intervengono imponendo un tetto massimo alle loro emissioni? La risposta è piuttosto ovvia: il guadagno che ne deriva. Per pochi, s'intende.

Se nel 1961 venivano prodotti, a livello globale, circa 70 milioni di tonnellate di carne, oggi siamo già a 345 milioni. Una crescita che si traduce in un giro d'affari da 945 miliardi di dollari e che già nel 2023 potrebbe superare i mille miliardi. Tra il 2015 e il 2020, le aziende citate dal Meat Atlas avrebbero ricevuto più di 400 miliardi di euro da circa 2.500 società di investimento, banche e fondi pensione, la maggior parte con sede in Nord America oppure in Europa. Un confronto? Sono almeno 5 miliardi in più di quelli che l'Unione europea destina ogni sette anni alla PAC, la politica agricola comunitaria.

Nel 2019 la capitalizzazione finanziaria delle tre principali aziende produttrici di carne (Hormel Foods, Tyson Foods e JBS, appunto) superava i 50 miliardi di dollari. Sulla tavola dei consumatori tutto questo sistema arriva sotto forma di cordon bleau surgelati, cotolette di pollo e arrosti già pronti.

Mangiamo troppa carne

Ripeterci che senza le monoculture intensive non ci sarebbe cibo a sufficienza per tutti è una bugia. La fetta più grande di tutto quello che viene coltivato a suon di pesticidi, fertilizzanti e sfruttamento del suolo finisce negli allevamenti intensivi. È un sistema che si autoalimenta e che mette a rischio anche la nostra salute.

Se volessimo aggiungere un elemento in più in questo quadro, potremmo dire che carne e latticini forniscono solo il 18% delle calorie e il 37% delle proteine consumate a livello globale. Il che significa che da quel 30% di terreni effettivamente coltivati per la nostra alimentazione traiamo l'82% dell'apporto calorico e il 63% di quello proteico. Il disequilibrio è evidente.

Una soluzione è sicuramente quella di mangiare meno carne e prodotti derivati dagli animali, facendo riferimento proprio alla dieta mediterranea, ritenuta la più sana e sostenibile tra quelle onnivore. Ma sono i governi che devono intervenire, ponendo un tetto massimo alle emissioni delle grandi aziende del settore alimentare e iniziando a inserire la questione alimentazione all'interno del dibattito e delle misure per la transizione ecologica.