In collaborazione con Giovanni Marrucci
Una benda nera, una mazza e una pallina che suona. Fuori dal campo, un pubblico che fa il tifo in silenzio per consentire ai giocatori di ascoltare. Un tacito incoraggiamento destinato ad atleti che si sfidano senza poter contare sui propri sguardi. Perché in questo sport si vede con le orecchie invece che con gli occhi.
“A differenza della disciplina ‘normale’, tu tieni in mano la pallina che è piena di sonagli. Sei tu stesso che la batti, poi corri, insegui un suono elettronico e i battiti delle mani delle persone vedenti che sono in campo e ti aiutano a capire dove devi andare, altrimenti ti fai male.”
Juan David Girelli ha 17 anni e fa parte dei Thunder’s Five, una squadra di baseball per non vedenti della città di Milano. Juan è ipovedente, questo significa che la sua capacità visiva è estremamente limitata, nonostante riesca a leggere scritte grandi e individuare alcuni oggetti da vicino. Lo sport adattato è però estremamente democratico, per questo i giocatori devono mettere sugli occhi una maschera che renda tutti uguali, senza avvantaggiare o svantaggiare nessuno. E Juan è d’accordo, nonostante la sua giovane età: “Bisogna imparare a giocare da soli, non vedendo. E ci si riesce molto bene”.
Sempre accanto a lui, dentro e fuori dal campo, il papà Maurizio che di partite non se ne perde una. Classe 1955, Maurizio ha adottato Juan dalla Colombia quando aveva tre anni e mezzo. Mentre ne parla la sua voce assume le sfumature d’orgoglio di un padre che ha saputo tirare fuori il meglio di sé e del figlio. Anche e soprattutto offrendogli la possibilità di praticare una disciplina che non credeva esistesse per chi ha una disabilità come la sua.
Il primo approccio di Juan a questo sport risale a quando frequentava le scuole medie. È accaduto quasi per caso, per destino e anche un po’ per sfida. “In tutte le classi del mondo si parla di calcio, nella mia invece si parlava sempre di baseball”, dice Juan, “alcuni miei amici ci giocavano, così ho deciso di provare anche io”.
“All’inizio eravamo un po’ dubbiosi, dal momento che i suoi compagni di classe che giocavano erano dei ragazzi vedenti”, racconta il papà Maurizio. “Abbiamo provato a spiegare a Juan che il baseball è uno sport complicato. Lui però insisteva e alla fine abbiamo acconsentito a portarlo. Quando ci siamo presentati al campo per assistere a un allenamento dei suoi amici era presente anche un allenatore della squadra di non vedenti. Parlando con lui, abbiamo deciso di provare a farlo entrare in squadra, anche se sarebbe stato il più piccolo di tutti”.
Juan partecipa quindi a quella che definisce la sua “giornata zero”, la prima esperienza di gioco durante la quale, racconta, “è andato tutto bene, il tempo è volato come il vento”.
Comincia ad allenarsi regolarmente, ma non può ancora giocare le partite di campionato perché troppo giovane e inesperto. Per il primo periodo fa un po’ da mascotte seguendo la squadra nelle trasferte, assistendo alle partite e vedendole, come dice lui, “a fantasia”. Poi, a fine campionato, arriva il momento di entrare in campo e di giocare per la prima volta.
“Ero agitatissimo, gli arbitri prima di farmi entrare mi hanno presentato aggiungendo che era la prima volta che giocavo. Quando è stato il momento mi sono messo a correre, sapevo benissimo dove dovevo andare e sono andato esattamente dalla parte opposta. Però la pallina è andata in buona e tutti sono venuti ad abbracciarmi”.
Nel gergo del baseball per ciechi, quando la palla va in buona significa che ha superato il cordino che parte dalla seconda base difensiva e arriva alla linea di foul di terza dopo aver rimbalzato almeno una volta prima di esso. In altre parole, è entrata nell’area della difesa e il lancio è valido (altrimenti il battitore deve ripeterlo, ha tre tentativi in totale). A differenza del baseball per normodotati, i giocatori in campo non sono nove ma cinque. A loro si aggiunge un sesto giocatore vedente che, nella fase di difesa, ha il compito di raccogliere la palla che gli viene lanciata dal compagno che per primo è riuscito a prenderla da terra con lo scopo di eliminare il battitore.
E in campo scende anche Maurizio, il papà di Juan, che partecipa attivamente alla vita della squadra con il ruolo ufficiale di “assistente di terza base”. Anche se, in realtà, va ben oltre. Nei giorni degli allenamenti chiede il permesso per uscire dal lavoro un’ora e mezza in anticipo, si cambia direttamente in ufficio, corre a casa a San Donato Milanese per prendere Juan e poi guida fino al campo Kennedy. Durante le partite scatta le foto, passa le mazze, si offre per accompagnare i giocatori in trasferta. Tutte attività che svolge con passione, felice degli effetti che lo sport ha avuto su Juan e sulla loro famiglia.
Effetti benefici confermati anche dal presidente dei Thunder’s Five, Fabio Dragotto, uno dei compagni di squadra di Juan: “Tra gli sport adattati per i non vedenti, il baseball è l’unico inclusivo al 100%. Nel senso che il giocatore cieco ha un’autonomia quasi completa, gioca insieme ai vedenti ma non dipende totalmente da loro come in altre discipline. In sostanza, nessuno lo aiuta e se la deve cavare da solo. Anche perché quando la palla viene lanciata dal battitore deve calare il silenzio, così da permettere ai giocatori di sentire il suono della sfera”.
Quella dei Thunder’s Five Milano è una squadra molto unita, oltre che variegata. Ci sono donne, uomini, adulti e ragazzi di qualsiasi età: alcuni compagni di squadra di Juan, che è il più giovane, sono over 50 e giocano tutti insieme, senza distinzioni. Anche se c’è chi è più competitivo e gioca per la vittoria perché, come sottolinea Juan, “lo sport è anche vincere” e chi invece partecipa per fare sport, divertirsi e stare in compagnia. Ma le differenze non sono un problema nei rapporti di amicizia, soprattutto per loro.
“La differenza tra un adulto e un bambino è soprattutto quello che fai, ad esempio l’adulto lavora e il ragazzino va a scuola. Invece tra i non vedenti c’è ancora quel clima da ragazzi, perché si viene comunque sempre aiutati e supportati dai genitori, si rimane sempre in quella mentalità adolescenziale, anzi direi più infantile. Noi siamo un gruppo abbastanza unito, dopo le partite mangiamo insieme, ci incontriamo, festeggiamo i compleanni e facciamo le videochiamate”.
A confermare questa forte unione del gruppo dei Thunder’s sono i risultati. Non quelli del 2020, visto che il campionato non è neanche partito a causa della pandemia, ma il “triplete” del 2019. Il 13 luglio scorso, infatti, i biancorossi hanno conquistato il loro settimo scudetto sul terreno di Bologna, nella finalissima tutta lombarda contro la Leonessa Brescia. Al titolo di campioni d’Italia si sono poi aggiunti Coppa Italia e Torneo di Fine Stagione, per una tripletta di trofei “che ci era già capitata altre volte”, aggiunge con una punta di orgoglio il presidente Fabio Dragotto, “è infatti la quarta dal 1999, l’anno della nostra fondazione”.
Quel pomeriggio a Bologna è stato l’ultima tappa di un campionato che ha visto Juan, Maurizio e la loro squadra girare l’Italia in lungo e in largo, da Perugia a Roma fino alla Sardegna, per la precisione a Cagliari. Viaggi e sacrifici premiati alla fine dal suono dello stappo dello spumante e dai fiumi di birra che scorrevano con in sottofondo la canzone che i Thunder’s hanno eletto a loro inno, Thunderstruck degli AC/DC. Ma i veri traguardi, nel baseball per ciechi, sono altri: “Io, da papà, vedo che lo sport, individuale ma soprattutto di squadra, è stato veramente utile a Juan, sia per acquisire autonomia che per quanto riguarda le relazioni con gli altri”, racconta Maurizio. “Quando va a scuola, la mattina lo accompagno io mentre al ritorno prende la metro da solo, con il bastone, fa anche delle passeggiate nel parco sotto casa. Insomma, l’indipendenza comincia ad avere corpo, e noi come famiglia restiamo sempre noi”.
“Il baseball è uno sport che ti aiuta a essere coraggioso”, conclude Fabio, “perché a differenza di altre discipline qua sei da solo pur giocando all’interno di una squadra. Mi riferisco ad esempio al momento della battuta, quando cala il silenzio e di fatto rimani solo con te stesso. E poi, soprattutto per gli ipovedenti come Juan che non sono abituati a stare completamente al buio, serve coraggio anche solo per cominciare a correre”.
(Foto di copertina di Lauro Bassani)