C’è bisogno di giustizia climatica: perché i Paesi ricchi devono finanziare la transizione ecologica dei Paesi in via di sviluppo

Responsabilità comuni, ma differenziate. Questo il principio cardine della giustizia climatica, uno dei temi centrali nella transizione ecologica globale. I Paesi ricchi devono aiutare i Paesi in via di sviluppo nella loro trasformazione energetica, anche perché sono state le loro emissioni a portarci in questa situazione di crisi ambientale. Ma la giustizia climatica va affermata anche all’interno dei singoli Stati.
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Michele Mastandrea 25 Marzo 2022
Intervista a Mattia Lolli Membro della segreteria nazionale di Legambiente

La prossima Cop27 di Sharm El-Sheikh dovrà affrontare, tra i vari temi in agenda, quello della giustizia climatica. Si tratta di un concetto complesso, al centro anche delle mobilitazioni dei movimenti contro il Climate Change. Si basa, semplificando, su due principali assunti.

Il primo è che lo sforzo per una transizione ecologica globale non può essere compiuto da alcuni e basta, ma deve riguardare tutti. I Paesi più ricchi, come quelli meno. Del resto, le emissioni di CO2 non fanno molta attenzione alle frontiere e a chi le produce.

Il secondo, invece, è che sulla base della storia, dei livelli passati di emissioni, delle necessità differenti di sviluppo economico, i Paesi ricchi debbano necessariamente aiutare quelli in via di sviluppo, finanziando la loro transizione. Aderendo insomma al principio delle "responsabilità comuni, ma differenziate", ripreso anche in accordi fondamentali del diritto ambientale internazionale come il Protocollo di Kyoto e gli Accordi di Parigi.

Giustizia climatica

Nel 2009, alla Cop15 di Copenaghen, questi principi avevano preso forma nel Green Climate Fund. Si tratta di un fondo da 100 miliardi di dollari all'anno che, a partire dal 2020, sarebbe dovuto essere corrisposto dai Paesi più ricchi e storicamente più inquinanti a quelli in via di sviluppo, per finanziare la loro transizione energetica.

Ma il fondo non è mai stato effettivamente varato: e nemmeno all'ultima Cop26 di Glasgow si è riusciti a trovare un accordo. "Tra giustizia ambientale e giustizia sociale c'è un legame, i cambiamenti climatici colpiscono le fasce più deboli della popolazione. Il tema è economico, ma anche politico. Non si può scaricare il peso della transizione ecologica su quelli che hanno meno colpe per l'attuale situazione", spiega Mattia Lolli, componente della segreteria nazionale di Legambiente.

Differenti responsabilità

Ma perché i Paesi ricchi dovrebbero pagare più di quelli meno facoltosi? Innanzitutto perché i Paesi più poveri hanno maggiori difficoltà ad affrontare i cambiamenti climatici. Ti basti pensare al fatto che Paesi come l'Etiopia, la Liberia o il Sud Africa dovranno investire ogni anno una quota consistente del proprio Pil, in media il 4%, per rispondere alle conseguenze di alluvioni, siccità, cicloni e altri eventi estremi. Il Sud Sudan, uno degli Stati più poveri del pianeta, programma di investire ogni anno 376,3 milioni di euro per i prossimi 18 anni in strategie di adattamento e mitigazione: ma la sua popolazione vive in gran parte con meno di 2 dollari al giorno.

"I Paesi del Sud del mondo hanno meno accesso alle tecnologie che permettono di ridurre le emissioni. Bisogna invece affermare il principio delle ‘responsabilità comuni, ma differenziate'. I paesi più sviluppati hanno storicamente emesso di più, e ora non possono negare a Paesi come India e Cina, o agli Stati africani, di svilupparsi. Devono invece supportarli affinché questo sviluppo passi per transizione alle rinnovabili e risparmio energetico", spiega Lolli.

Ma chi inquina davvero di più?

Secondo uno studio della piattaforma indipendente Ener2Crowd, in termini di produzione di CO2 il 50% della popolazione globale inquinerebbe ben 20 volte di più dell'1% più ricco. Il dato sembrerebbe smentire l'idea per cui i maggiori inquinatori del pianeta sarebbero proprio i Paesi ricchi, ma in realtà conferma che per una transizione ecologica globale serve finanziare i Paesi storicamente meno climalteranti e dalla minore ricchezza complessiva. Investendo soprattutto per migliorare l'efficienza energetica e la produzione di energia da fonti rinnovabili.

"Il peso demografico di Cina e India porterà a un aumento enorme delle emissioni, già oggi la Cina inquina più degli Usa. Ma si tratta di una cosa normale nell'ambito dello sviluppo", spiega Lolli. "Il processo di transizione ecologica dev'essere la possibilità per questi paesi di accedere subito a tecnologie per la produzione pulita, per avere una trasformazione sociale basato sulla distribuzione e l'autoproduzione dell'energia, in modo da favorire processi di costruzione di comunità", prosegue.

Servono politiche mirate, anche in Italia

Anche perché il problema vero su cui bisognerebbe concentrarsi è in termini di emissioni pro-capite. Un altro studio, questa volta di Oxfam, afferma invece che la quota di emissioni di C02 degli appartenenti all'1% più ricco della popolazione è invece 30 volte maggiore di quella che dovrebbe essere permessa se vogliamo mantenere la temperatura globale sotto gli 1,5 gradi, come deciso nell'ambito degli Accordi di Parigi. Il tema della povertà energetica dunque travalica la sostanziale divisione tra Paesi ricchi e Paesi poveri, per entrare anche dentro le società dei singoli Paesi.

"Nelle periferie è più difficile avere accesso alle rinnovabili. Succede anche in Italia, dove il Superbonus è stato maggiormente sfruttato dalla fascia medio-alta della popolazione, quando l'obiettivo doveva essere l'opposto". Servono dunque politiche mirate, a partire dallo sviluppo delle comunità energetiche. Ma per Lolli "bisogna far capire anche alle comunità l'importanza di lavorare per la transizione energetica. Perché anche se sembra l'ultimo dei loro problemi, comprensibilmente, significa ridurre i costi in bolletta, avere una migliore qualità della vita. Insomma, prendere la strada del progresso sociale".