Quanto siamo pronti a introdurre gli insetti nella nostra alimentazione?

Gli insetti potrebbero essere un cibo del futuro, eppure solo l’idea a molti fa ribrezzo. Perché succede? È una questione di cultura o di un comportamento che non è ancora diventato “abitudine”? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Pantaleo, ordinario di Psicologia sociale e Direttore dell’UniSR-Social.Lab presso l’Ospedale San Raffaele di Milano.
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Gaia Cortese 9 Marzo 2023
Intervista a Prof. Giuseppe Pantaleo Professore Ordinario di Psicologia Sociale

Gli insetti sono il cibo del futuro? Almeno il 58 per cento delle persone coinvolte in un sondaggio proposto nell'ambito di uno studio dell'Universitat Oberta de Catalunya (UOC) sul consumo di insetti, ritiene che in un prossimo futuro potrebbero essere una fonte alternativa e sostenibile di proteine ​​e, pertanto, la loro integrazione nell'alimentazione potrebbe diventare una realtà. Eppure c'è chi prova ribrezzo solo al pensiero.

Perché succede? È una questione di cultura? Una pratica che semplicemente non ha ancora avuto il tempo di trasformarsi in un'abitudine? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Pantaleo, ordinario di Psicologia sociale e Direttore dell'UniSR-Social.Lab, il laboratorio di psicologia sociale dell'università vita-salute San Raffaele di Milano.

Perché non riusciamo a considerare gli insetti come un potenziale alimento?

L’insetto è generalmente associato, almeno istintivamente, al pericolo, alla possibilità di infezione, alla sporcizia, a una proliferazione incontrollata. Tanto per fare un esempio, nessuno vuole avere le formiche in casa. Una parte predominante del nostro pensiero vuole solo sapere da dove arrivano, per capire da cosa possono essere state attirate per poi disfarsene una volta per tutte. Qualsiasi forma di razionalità attuabile viene necessariamente a scontrarsi con una reazione adattiva di tipo primordiale che all'uomo è utile per evitare di contrarre malattie e infezioni. È da qui che nasce una certa resistenza, basata essenzialmente su una risposta ancestrale, di tipo emotivo-motivazionale.

Chi mostra questa resistenza è perché non ha mai provato a mangiare insetti. Farlo potrebbe essere una soluzione?

Tendenzialmente, sì. C’è addirittura una tecnica in psicologia sociale, basata sulla teoria della dissonanza cognitiva di Leon Festinger, detta della “scelta forzata”, che funziona in questo modo: si induce una persona a fare qualcosa che normalmente non farebbe, lasciandole la possibilità di tirarsi indietro e facendole credere che l’atto che sta compiendo sia assolutamente libero e voluto. Questa forma di persuasione si chiama anche “accordo forzato" o "accondiscendenza indotta”, perché si induce una persona a fare qualcosa che normalmente non farebbe, lasciandole pensare che è d’accordo o libera di scegliere. Nella persona nasce quindi uno stato mentale di dissonanza, per il fatto di fare qualcosa che non avrebbe fatto e che è, appunto,  non in linea con il suo atteggiamento.

Per esempio, di mio potrei evitare di mangiare una barretta proteica di insetti, ma se dovessi accettare perché qualcuno mi invita a farlo, allora accettando, farei una cosa per cui non sono stato costretto, ne sarei responsabile, ma allo stesso tempo sarebbe qualcosa che confligge con il mio atteggiamento, tendenzialmente contrario a cibarmi di insetti.

Tipicamente a questo punto ci sono due possibilità: o rifiuto e rinnego l’esperienza e quindi divento più radicale nel mio atteggiamento iniziale; oppure, ciò che spesso accade nei contesti sociali, inizio a razionalizzare, a trovare ragioni a favore del fatto che io abbia assaggiato la barretta, e se aggiungo ragioni a favore dell’assaggio, inizierò a cambiare atteggiamento in quella direzione, e magari anche a farne anche del proselitismo.

In entrambi i casi, riduco la dissonanza associata al fatto di aver attuato un comportamento sostanzialmente contrario al mio atteggiamento iniziale. Questa è una tecnica usata anche per indurre le persone a fare acquisti o per sottoporsi a uno screening di tipo medico e via dicendo.

In quali modi si sta cercando di contrastare questa resistenza?

Un modo è quello di aumentare nelle persone il senso di identificazione sociale con un gruppo. Tipicamente, in quanto individui, abbiamo spesso bisogno di rispondere alle domande: “Chi sono io? Da dove vengo? Qual è il mio posto nel mondo?”. Sono bilanci che facciamo sempre, in maniera anche implicita in occasioni speciali come a Capodanno o al ritorno delle vacanze.

La questione dell’identità è fondamentale per ciascuno di noi e, una volta coscienti di ciò, l’identità può declinarsi in due maniere: può essere personale come sociale, ossia – in quest'ultimo caso – strettamente riferibile al gruppo cui appartengo; ciò mi aiuterà a "comprendere" quale ruolo ricopro nel mondo come  nell'ambiente circostante.

Molto spesso l’identità sociale compensa quella personale. Se come docente inizio a perdere terreno scrivendo meno articoli di quelli che vorrei scrivere, per esempio, posso sempre bilanciare questa mia lacuna soggettiva con il fatto che appartengo a un’istituzione che in termini di ricerca è piuttosto rinomata. In questo modo, il gruppo sopperisce all'individuo.

Tornando agli insetti, la questione è ancora più semplice. Soprattutto i più giovani hanno necessità di far quadrare i conti in termini di identità e se qualcuno all’interno del loro gruppo fisico o nella comunità virtuale dei social, introduce questa esperienza suggerendo che quello può essere un nuovo modo di concepire le cose, l’adolescente avrà una spinta ulteriore a conformarsi al gruppo, adottando lo stesso tipo di comportamento, proprio per aumentare il senso di sicurezza e protezione che deriva dall'identificazione con il gruppo.

Se nel gruppo fisico o nella comunità virtuale di riferimento le persone iniziano a mangiare barrette di insetti, o a nutrirsi in maniera più sostenibile, di sicuro chi è parte di quella aggregazione si sentirà tanto più sotto pressione di doverlo fare, quanto più avverte delle lacune nel proprio senso di identità, pena non fare più parte di quel gruppo e aumentare dunque quelle lacune.

È anche una questione di identità culturale. L’introduzione di cibi e pratiche nuove deve fare inevitabilmente i conti con una resistenza che arriva da un senso di identità e riconoscimento culturale cristallizzato nel tempo, ma nulla esclude che si andrà verso il futuro, se questo è il futuro, attraverso gruppi capaci di creare un’alternativa, sempre a patto che le persone vi si identifichino.

In questo senso si può magari lavorare sulle nuove generazioni, intendo, inserire gli insetti nell’alimentazione fin dall’infanzia?

Anche qui si apre un conflitto generazionale e culturale, di identità. C’è per esempio chi non mangerebbe mai una lumaca e chi invece le apprezza perché ha iniziato a mangiarle fin da piccolo. È proprio una questione di pratica di un’abitudine e lo dimostra il fatto che in altre parti del mondo alcuni insetti sono considerati prelibati, tanto da essere particolarmente costosi e a volte introvabili.

Il bambino nasce con un suo corredo genetico, poi interagisce con l’ambiente fisico e sociale e tende ad accogliere quello che gli viene proposto, per cui è  chiaro che se un bambino inizia fin da piccolo a cibarsi in un certo modo, non avrà nessun problema a seguire un certo tipo di alimentazione, anzi penserà che sia la cosa più normale da fare.

La resistenza può essere dovuta all’aspetto della cosa che si mangia?

Contano tantissimo l’aspetto, il colore e l’odore. Basta tornare indietro nel tempo per fare i conti con l’idea che mangiare qualcosa di colore blu, per esempio, ci farà stare male, perché di solito gli alimenti di colore blu possono contenere delle tossine (in questo senso prugne, mirtilli e melanzane costituiscono un'eccezione), per cui abbiamo imparato come specie che alimenti di un certo tipo o colore vanno prudenzialmente evitati.

La stessa cosa vale per l’insetto in quanto capace di attivare reazioni di fuga primordiali ed emozioni come la paura e il ribrezzo. Uno scarafaggio può essere proteico quanto vogliamo, ma viene istintivamente associato allo sporco tipico degli ambienti in cui vive e prolifera, alle infezioni e alle malattie. Allora sì, l’aspetto è proprio l’apparenza attraverso la quale riconosciamo una cosa come pericolosa o no. È poi anche vero che se ci viene proposto di mangiare un piatto a base di grilli questa cosa lascia perplessi, ma se già si parla di farina di grilli, allora conoscendo già tanti tipi di farina, siamo più disposti ad accettarla, eppure ne abbiamo solo trasformato l’aspetto.

Quanto tempo ci vorrà per abituarsi?

Ci vorrà indubbiamente tanto tempo, il tempo necessario affinché le persone si convincano che l’alimento può essere sicuro dal punto di vista igienico. Da questo punto di vista la comunicazione sul tema è efficace, funziona, e si insiste di continuo sul fatto che questi ingredienti debbano arrivare solo da canali certificati, proprio per questioni igienico sanitarie.

Se le cose dovessero andare in quella direzione e se dovesse verificarsi un cambiamento culturale, ci si abituerà di sicuro. Ci sono due "se" in fila, insomma. Da un lato c’è una spinta ideale, legata al tema dell’ecosostenibilità, tema molto sentito soprattutto dai giovani; dall’altro sappiamo anche che ci sono anche degli interessi economici: curiosamente l'Italia è uno dei primi produttori di farine di insetti, quindi significa che c’è chi ha investito in quel settore anche parecchio denaro, e intende farlo sfruttare. Ora è da vedere quanto queste persone dovranno fare i conti con le resistenze contrapposte alla possibilità di cambiamento culturale. La cultura è qualcosa che si apprende e quindi è molto più probabile che il "successo" arrivi con le generazioni future, non immediatamente.

Quanto tempo ci vuole per un cambiamento culturale?

In genere dalle due alle tre generazioni anche se non si tratta di una ricetta. C’è invece una logica. La logica è che se io e un’altra persona contribuiamo a cambiare un sistema di regole, sappiamo entrambi che c’è dell’arbitrarietà in quello che stiamo facendo, per cui potremmo mettere tutto in discussione con relativa facilità e dunque rifiutare il cambiamento che noi stessi proponiamo.

Nel momento in cui invece trasmettiamo un comportamento ad una nuova generazione, quest’ultima lo prende per il modo naturale di fare le cose, ossia come una norma che da oggetto di contrattazione, da un lato è diventata "realtà" (in questo caso si parla di reificazione), ma che, d'altro canto, è ancora troppo vicina a chi l’ha introdotta, cosa che la espone, ancora, ad essere messa in discussione.

Tuttavia la generazione successiva, ossia i figli dei figli, perderà l’aggancio con l’origine di quella norma, vale a dire con il motivo che l'hanno resa necessaria, trasformandola così in una pratica soggettivamente "normale", assodata e percorribile.

A distanza di generazioni, la norma tende ad essere accettata come un dato di fatto, come "realtà" sulla quale fondare le pratiche sociali più disparate, comprese quelle innovative dal punto di vista alimentare.