Annalisa, Silvia e Debora protagoniste di un film insieme ai loro tumori: “Per raccontare che i malati non sono la loro malattia”

Tutte e tre affette da neoplasie o malattie rare, hanno scelto di mettersi di fronte all’obiettivo del regista Manuele Cecconello e raccontare le loro storie di convivenza con le patologie. Dall’impossibilità di avere figli alla dialisi sempre presente, Annalisa, Debora e Silvia si sono messe a nudo. Per poi ritrovarsi e cominciare una nuova vita.
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Kevin Ben Alì Zinati 5 Ottobre 2020
* ultima modifica il 05/10/2020

La bambina di Silvia aveva appena iniziato l’asilo. Erano i primissimi giorni con i nuovi compagni e la paura mista all’entusiasmo per i primi passi in un mondo nuovo correvano lungo la schiena della piccola come su quella della mamma. In più c’erano il lavoro da non sbagliare e la casa da mantenere e la stanchezza infinita era il nuovo coinquilino a cui Silvia sapeva di doversi abituare. Poi è arrivata la febbre, ma l’autunno stava passando il testimone all’inverno e alle influenze, quindi faceva tutto parte del copione. Alla fine sono arrivate anche le sudorazioni notturne.

Annalisa invece era in ospedale, l’aveva accompagnata sua suocera perché le forti metrorragie di cui soffriva da tempo le avevano causato una grave anemia che l’aveva costretta a quattro trasfusioni di sangue. Il suo cuore poi si era indebolito troppo ed era arrivato anche l’infarto, tutto mentre suo marito Luca era a distanza, a casa, perché la sua condizione non gli permetteva di esserci fisicamente.

Se c’era una cosa che a Debora non era mai mancata erano l’ironia ma soprattutto le energie per guardare in faccia una sfida e vincerla. Come con il nuoto: era immersa nella sua vita, con la famiglia e figlio che le davano il solito da fare ma si era imposta di superare le 50 vasche consecutive e l’aveva fatto.

Silvia, Annalisa e Debora correvano tranquille sui binari della vita, poi è arrivata la notizia. Silvia nel 2015 si è ritrovata con un linfoma di Hodgkin al terzo stadio, due anni dopo Annalisa ha scoperto di avere un tumore dell’utero, precisamente dell’endometrio. I medici, a maggio del 2018 hanno invece svelato a Debora che nel suo corpo si stava facendo largo una malattia rara, l’amiloidosi, che aveva già colpito i reni e il cuore, seppur in maniera minore.

Cambio di direzione 

Le scarrozzate fino all’asilo si sono fermate, le vasche in piscina sono diminuite e le visite in ospedale si sono fatte più frequenti. I treni di Silvia, Annalisa e Debora hanno deragliato. Tutte e tre ancora oggi abitano Bassano del Grappa, Debora e Silvia sono addirittura vicine di casa, eppure non si conoscevano. Le loro storie si sono intrecciate tra le mura dell’Associazione Oncologica San Bassiano, dove sono diventate protagoniste di un docu-film per raccontare che cosa vuol dire vivere con un tumore e per ricordare a tutti, pazienti e parenti, che i malati di cancro non sono il cancro, non è scritto sulla loro carta d’identità. “Ho accettato di partecipare al film perché ho pensato che se la mia storia fosse riuscita a trovare anche una sola persona che soffre e ha bisogno di aiuto, allora avrei dovuto farlo” racconta Annalisa, mentre la pellicola, dopo aver girato per piccole proiezioni locali, è ormai pronta a sbarcare sugli schermi dei festival cinematografici.

Le tre amiche insieme al Lorena Dego, dello staff di Raptus and Rose e collaboratrice dell’Associazione e al regista Manuele Cecconello

Oggi le tre donne sono amiche, Annalisa e Silvia hanno superato le loro malattie. Annalisa si è sottoposta subito all’intervento chirurgico, “ho fatto un’isterectomia, quindi mi hanno tolto l’utero e le tube e non ho dovuto fare terapie”. Oggi però sa che non potrà mai avere dei figli. “Di fronte alla parola cancro non ci ho pensato due volte, non volevo morire e solo dopo mi sono resa conto che il sogno di una vita era stato interrotto. Non è stato facile, e non lo è nemmeno oggi”. Il linfoma ha abbandonato Silvia dopo un autotrapianto di cellule staminali e dopo un trapianto di midollo, “era la festa della donna, l’8 marzo del 2018, e un uomo non mi ha regalato una mimosa ma un midollo, grazie al quale oggi la malattia è in remissione.

Se la mia storia fosse riuscita a trovare anche una sola persona che soffre, allora avrei dovuto farlo

Annalisa

Quella di Debora invece è una partita più lunga, estenuante come le finali ai rigori. Anche lei doveva sottoporsi all’autotrapianto di staminali ma i suoi reni erano più provati dei mesi precedenti “e il rischio di morte dal 5% era passato al 25% e con l’arrivo della pandemia i medici hanno fermato tutto”. Così le hanno prospettato un’altra chemioterapia, “con il 70% di possibilità di guarigione, quando invece con l’autotrapianto sarebbe stata quasi garantita”. Nel frattempo, però, Debora s’è presa il Coronavirus, che ha colpito la sua parte più debole: i reni. “Ho sviluppato un blocco renale. In due giorni ho accumulato 10 chili di acqua e in rianimazione sono rimasta attaccata alla macchina per la dialisi per 48 ore consecutive”. Alla fine, i suoi reni sono ripartiti “ma la dialisi è diventata una realtà fissa della mia vita.

Due famiglie 

Le loro storie hanno tanti punti in comune. Uno in particolare colpisce: la solitudine. Non per la mancanza della famiglia, anzi. Tutte e tre hanno avuto accanto uomini forti che si sono occupati di case e figli permettendo loro di concentrare ogni sforzo nella sfida contro la malattia. Quando hai un tumore, però, agli occhi degli altri sei una persona diversa e il mondo in cui sei catapultato è tutto nuovo e difficile, fatto di scartoffie “per compilare i moduli e le carte per richiedere l’invalidità. Non tutti sono scaltri e sanno come muoversi e una scemenza può sembrare un muro dice Annalisa.

Poi ci sono le visite da programmare e le cure da seguire e gestire, perché fare la chemioterapia non vuol dire solo farsi iniettare sostanze che devono combattere la neoplasia annidata nel tuo corpo. Significa anche fare i conti con un’eventuale perdita dei capelli, le nausee, i dolori, la fatica e soprattutto con un senso di estraniamento perché loro, gli altri, per quanto si sforzino e ti vogliano bene, non capiscono, non possono.

La dialisi è diventata una realtà fissa della mia vita

Debora

In questo spazietto tra Silvia, Annalisa, e Debora e le loro case si è inserita l’associazione San Bassiano, la loro seconda famiglia. “Qui sei a contatto con persone che sanno di cosa si parla, che non sgranano gli occhi quando racconti. E tu ti meravigli, ti chiedi come facciano a capirti perché chi ti sta attorno senti che non riesce a seguirti, certi meccanismi non li comprende. Dopo ogni incontro di due ore alla settimana mi sentivo sollevata e alleggerita. San Bassiano, come tante altre associazioni, sono luoghi d’evasione, “ambiti dove poter parlare e sfogarsi dei propri problemi e che non può essere quello familiare. Tra le mura di casa vorresti essere serena e felice dice Silvia. Durante i cicli di chemio portavano la coperta a chi aveva freddo, un libro o una spremuta: piccole cose che però, racconta Debora, “non ti fanno sentire sola”. Sono porti sicuri dove poter scaricare le proprie paure.

Eppure, spesso, forse troppo, sono luoghi sommersi, realtà lasciate in secondo piano e dimenticate. Nelle storie di Silvia, Annalisa, e Debora l’associazione non è arrivata su un biglietto da visita dall’ospedale. “I medici non ne parlano e non prospettano quasi mai questa opzione”. Dietro all’amarezza di Silvia c’è la consapevolezza che l’associazione è arrivata per puro caso, grazie al passaparola spinto da altre pazienti. Lo sa bene anche Annalisa: “Un giorno, in un negozio, ho scambiato una battuta con una ragazza e da un sorriso è nata una conversazione. Siamo finite a scherzare sulla mia malattia e lei mi ha parlato dell’associazione. Non so come, ma aveva toccato le corde giuste tanto che uscita dal negozio l’ho chiamata subito”.

Spesso le associazioni per i malati oncologici sono luoghi sommersi, realtà lasciate in secondo piano e dimenticate

Debora invece ci è arrivata attraverso un giro su Facebook, dove aveva letto parole sulla chemioterapia e sui suoi aspetti pratici che l’avevano spaventata. Così ha scritto un post per chiedere qualche dritta su come organizzarmi, “tra le tante risposte c’era quella di Silvia, che mi ha suggerito di contattare l’associazione. Qui ho conosciuto Elena, la psicologa, il mio faro, il mio grillo sulla spalla. Si è occupata di me come di una mamma, mi chiamava tutti i giorni e quasi mi inseguiva per farmi mangiare perché per lungo tempo non ho avuto un grande appetito”.

Come le fenici 

Quando una persona si ammala di tumore, in automatico la si collega a immagini di chemioterapie, al dolore, ai capelli che cadono, al vomito, agli ospedali. Anche se non abbiamo alcun tipo di pregiudizio, lo facciamo tutti: è un paradigma a cui ci hanno abituato. Lo era anche Debora, fino al suo ingresso nell’associazione. “Qui però ti offrono l’altra faccia della medaglia, dimostrano che un malato di tumore non è la sua malattia e ti ricordano invece che sei un combattente: sono stati in grado di darmi una grinta pazzesca”.

La loro è stata una rinascita, come un’auto da Formula 1 che si ferma ai box, fa il cambio di gomme e olio e torna in pista: il motore è sempre lo stesso, ma con una potenza nuova. Più che una Ferrari, però, Annalisa si sente una fenice: “Affrontare un tumore, capirlo e passarci attraverso ti dà una nuova consapevolezza di te e del mondo. Ti fa riscoprire delle cose di te che avevi dimenticato. Dopo l’intervento, anche spinta dall’associazione, mi sono tuffata in tantissime esperienze nuove che non avevo mai fatto prima e ho cominciato a vivere tutto con più profondità e intensità, anche le litigate. Ho preso tutto il tempo per discutere e riappacificarmi, quando prima invece non mi importava nemmeno capire il perché. Ora non mi lascio sfuggire nessuna sfumatura. È più faticoso sì, ma è più arricchente.

In questi luoghi puoi sfogarti e sentirti ascoltata perché tra le mura di casa invece vorresti essere serena e felice

Silvia

Partecipando alla vita dell’associazione, Annalisa, Debora e Silvia sono diventate delle “yes girl”: qualunque attività venisse proposta loro, accettavano e sperimentavano, mettendosi in gioco in situazioni il più delle volte sconosciute: dal pilates al Tai Chi fino alle sfilate in piazza a Bassano e altre in tutto il Veneto era sempre un “sì, ci sono”. Con la curiosità, hanno riscoperto loro stesse. Debora, per esempio, prima di ammalarsi sperava “di diventare felice perdendo 3 chili o con migliaia di euro in banca. Ora ho capito che la forza per affrontare queste situazioni viene sì dalle nostre famiglie ma soprattutto la troviamo dentro di noi. La malattia mi ha rimesso al centro del mio universo, mi sono sempre occupata degli altri, lei mi ha insegnato a prendermi cura di me stessa e a volermi più bene”.

Star tutti i giorni

E il film? Perché tutto quello che Annalisa, Debora e Silvia hanno passato, visto e provato è entrato nella sceneggiatura del documentario “Il mondo è mio, il Défilé della Rinascita” firmato da regista Manuele Cecconello. Mettersi di fronte all’obiettivo e mostrarsi è stata una fase del loro percorso attraverso la malattia. Non è stata un’esperienza facile. Per Annalisa è stato come guardarsi allo specchio: “Oggi sono convinta che un tumore toglie tanto ma non toglie tutto. Quando arriva la diagnosi, la parola cancro per tutti equivale a morte ma non è così. Partecipare alla realizzazione di questo docu-film, parlare di me e della mia malattia di fronte a un obiettivo, aprirmi con una persona, il regista, e con chissà quante altre, il pubblico, mi ha aiutata ad arrivare a questa consapevolezza”.

Da sinistra ci sono Gianni Celi, presidente dell’associazione oncologica San Bassiano ONLUS, la vicepresidente Dina Faoro poi Annalisa, la psicologa Elena Pasquin, Debora, Silvia e il regista Manuele Cecconello

Parlando di fronte alla telecamera Debora ha imparato a mettersi alle spalle la vergogna e il pudore e che “quando ti metti a nudo e dai agli altri, poi loro lo fanno con te”. Il rivedersi l’ha aiutata a prendere coscienza di una parte importante di sé, il suo corpo perché “quando mi sono rivista mi sono piaciuta”. Silvia invece è diventata spettatrice di se stessa insieme a suo marito e alla sua bambina. Erano sul divano di casa e mentre le immagini scorrevano, si tenevano per mano. “La piccola si è commossa, soprattutto quando parlavo di lei. Per mio marito è stato come rivivere 5 anni in poco più di un’ora. Nel film invece ho rivisto la mia grinta, mi ha aiutato a riscoprirmi”.

Ieri Annalisa, Debora e Silvia affrontavano tumori e malattie rare e giocavano a fare le attrici per un documentario. Oggi disegnano nuovi contorni alle loro vite, includendo al di qua delle righe esperienze nuove e mai viste prima. E domani? Quando l’abbiamo chiesto, tutte e tre ci hanno parlato di sogni e viaggi. Ma la verità è che Annalisa, Debora e Silvia diventeranno sceneggiatrici. Autrici del foglio bianco delle loro nuove vite in cui, dopo un tumore, un linfoma e l’amiloidosi e la dialisi, tutto è davvero possibile.

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