In Italia l’aborto è ancora una colpa e il ritardo sulla pillola abortiva lo dimostra

In occasione della Giornata Internazionale per l’Aborto Sicuro, Laura Formenti ci ha raccontato il suo viaggio attraverso l’Italia alla ricerca della pillola abortiva RU486 come testimonial di Medici del Mondo. Difficoltà materiali e stigma culturale rendono ancora molto difficile l’iter per ottenere l’aborto farmacologico, nonostante dal 2006 l’Oms abbia riconosciuto la pillola abortiva come un farmaco essenziale per la salute riproduttiva.
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Maria Teresa Gasbarrone 28 Settembre 2023
* ultima modifica il 28/09/2023
Intervista a Laura Formenti Attrice e performer comica e testimonial di Medici del Mondo

In Italia ogni donna può decidere di abortire entro 90 giorni di gestazione "per motivi di salute, economici, sociali o familiari". È un diritto riconosciuto e regolamentato dalla legge 194 del 1978.

Questo dovrebbe significare che qualunque donna, in qualsiasi regione, provincia o comune d'Italia, decida di ricorrere all'interruzione volontaria di gravidanza (IVG) dovrebbe avere la possibilità di accedere alle strutture e/o procedure necessarie per farlo senza mettere a rischio la proprio vita e senza sentirsi giudicata.

Dovrebbe, ma nella realtà dei fatti, spesso il percorso per vedersi riconosciuto il diritto all'aborto è disseminato di ostacoli, tra consultori in sovraccarico, medici obiettori e una cultura colpevolizzante nei confronti della donna, che, in ogni caso anche se si vede riconosciuto questo diritto deve soffrire.

Tra gli ostacoli che una donna in Italia deve superare nel caso in cui decida di abortire rientra la difficoltà a ricorrere all'aborto farmacologico, opzione che invece nella maggior parte dei Paesi del Nord Europa è ormai ampiamente riconosciuta come alternativa all'aborto chirurgico. In Italia è riconosciuta dal 2009 e vi si può ricorrere entro le nove settimane (in alcune regioni ancora 7) di gestazione.

Per denunciare il grave ritardo italiano nell'approccio alla pillola abortita (RU486), nonostante dal 2006 l'Oms la riconosca come un farmaco essenziale per la salute riproduttiva, in occasione della Giornata Internazionale per l'Aborto Sicuro, Medici del Mondo ha lanciato la campagna "The Impossible Pill", un documentario dal Sud al Nord Italia alla ricerca della Ru486.

La narrazione del dolore

Ohga ha intervistato la protagonista di questo viaggio, l'attrice e performer comica Laura Formenti, che in quest'esperienza ha cercato di rompere la narrazione stereotipata dell'aborto come scelta ammissibile solo se fonte di sofferenza e pentimento per la donna: "Avevo già trattato – ci racconta l'attrice – questi argomenti nei miei sketch comici, quindi sono stata felice di partecipare a questo progetto, anche per il tipo di narrazione che abbiamo voluto dare in questa campagna. Ancora troppo spesso infatti l’aborto è un argomento tabù e quando se ne parla lo si fa solo e soltanto all’interno di un “clima di dolore.

Laura Formenti durante il suo viaggio, foto di Medici del Mondo

Secondo me una narrazione meno incentrata solo sulla dimensione della sofferenza può essere in grado di arrivare a più persone, ma soprattutto perché credo che in Italia sia ancora prevalente un tipo di narrazione dell’aborto molto colpevolizzante nei confronti delle donne che scelgono di ricorrervi. Anche questa narrazione è tra i tanti problemi e ostacoli con cui si scontra chi compie questa scelta.

In Italia è ancora molto forte questa visione della donna che si realizza solo attraverso la maternità, che rinuncia alla carriera e a qualsiasi altra sua ambizione o sogno pur di diventare mamma. È ancora molto radicata l’idea che da un parte fa della maternità la massima aspirazione di ogni donna, e, dall’altra, la connette a una dimensione di eterno sacrificio. 

Questa cultura della maternità come sublimazione del sacrificio e quella visione colpevolizzante dell’aborto sono le due facce di una stessa medaglia".

Colpevolizzare le donne

Laura Formenti è partita da Palermo per attraversare tutto il Paese, fino ad arrivare – simbolicamente – sul Monte Bianco, alla ricerca di questa pillola introvabile. Durante il suo viaggio ha parlato con associazioni, esperte e in genere donne, che del riconoscimento del diritto all'aborto hanno fatto la loro missione di vita. Ci ha confermato come ancora nel comune sentire italiano l'aborto resti una colpa da espiare:

"È come se, quando si parla dell’aborto, si volesse far sentire in colpa la donna che lo sceglie, come se in qualche modo interrompere la gravidanza fosse una possibilità concessa dalla società alla donna, ma non davvero una sua libera scelta. Ecco perché sembra quasi che ci sia uno scotto da pagare, una sorta di punizione. Il messaggio implicito è in qualche modo questo: “Ti concediamo di abortire, ma se lo fai devi un po’ soffrire così poi impari a non farlo più”.

È questo tipo di colpevolizzazione nei confronti della donna che io contesto e che penso crei tante difficoltà. L’aborto dovrebbe invece essere una scelta a cui ciascuna donna attribuisce il significato che sente perché è un’esperienza assolutamente individuale. Ad oggi l’idea che si ha dell’aborto è che sia un diritto che si conquista con la sofferenza, invece ognuna ha diritto a sceglierlo in base alle sue personali motivazioni".

Un diritto davvero per tutte?

Sebbene in Italia il diritto all'aborto sia riconosciuto come diritto di ogni donna dalla legge 194 del 1978, la sua applicazione è ancora piuttosto disomogenea da regione a regione, a causa delle forti frammentazioni nell’offerta di strutture e personale medico.

Quando una donna decide di ricorrere all'IGV ha davanti a sé due strade: rivolgersi a una struttura ospedaliera oppure a un consultorio. Tuttavia, in realtà, entrambi queste strade possono mettere la donna davanti a delle difficoltà, fattuali e psicologiche, o entrambi.

Iniziamo con il primo problema: le difficoltà dei consultori presenti sul territorio la domanda a gestire la domanda di servizi. "Spesso nei consultori la persona che si interfaccia con le donne si occupa anche di rispondere a telefono – spiega nel documentario "The Impossible Pill" Emilia Sini di Maghweb, associazione di promozione sociale con base a Palermo – Per questo non è così facile contattare i consultori".

Secondo i dati del Ministero della Salute, aggregati e risalenti al 2020, i consultori familiari che effettuano counselling per l’IVG e rilasciano certificati sono il 69,9% del totale, mentre le strutture con reparto di ostetricia e ginecologia che effettuano IVG sono il 63,8%.

In Italia c'è poi l'annosa questione dei medici obiettori di coscienza. Lo è il 36,2% del personale non medico, il 44,6% degli anestesisti e il 64,6% dei ginecologi, con picchi dell’84,5% nella provincia autonoma di Bolzano, 83,8% in Abruzzo e 82,8% in Molise.

Non solo: come ha rilevato la ricerca "Mai dati" dell’Associazione Luca Coscioni, in 22 ospedali (e quattro consultori) italiani la percentuale di obiettori di coscienza tra il personale sanitario è del 100%, mentre in 72 è tra l’80 e il 100%. E questo è in contrasto con la stessa legge: la 194 prevede infatti il diritto di obiezione solo per i singoli medici, non per intere strutture.

Cos'è l'aborto farmacologico

L'arretratezza dell'Italia diventa ancora più evidente quando si parla di aborto farmacologico. Si tratta di una modalità di IVG che non ricorre all'intervento chirurgico ma all'assunzione di due pillole: il mifepristone (conosciuto come RU486) e, 48 ore dopo, il misoprostolo, della categoria delle prostaglandine.

Si tratta di un metodo poco invasivo che la stessa Oms ha definito una procedura sicura e raccomandata per le interruzioni di gravidanza. Eppure – denuncia Medici del Mondo – l’Italia è ancora molto in ritardo: la pillola abortiva è arrivata solo nel 2009 e negli anni sempre più persone l’hanno preferita al metodo chirurgico, passando dallo 0,7% nel 2010, al 20,8% nel 2018, fino al 31,9% nel 2020, con le percentuali più elevate registrate in Liguria (54,8%), Basilicata (52,5%) e Piemonte (51,6%)".

Il ritardo italiano è evidente confrontando la situazione negli altri Paesi del Nord Europa: in Francia (dove la RU486 è stata introdotta già nel 1988) e in Inghilterra (nel 1990) gli aborti farmacologici sono oltre il 70% del totale (la percentuale supera il 90% nel Nord Europa), con la possibilità di somministrazione fino alla nona settimana di gravidanza e in regime di day hospital. Questa possibilità in Italia è stata introdotta solo nel 2020 con l’aggiornamento, da parte del Ministero della Salute, delle "Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza".

Perché l'Italia non vuole la pillola abortiva

L'idea, anche inconscia, secondo cui l'aborto è sì "concesso", ma a patto che sia causa di enormi sofferenze per la donna è figlia della stessa cultura che rende così difficile il ricorso alla pillola abortiva in Italia. L'aborto farmacologico è una modalità di IVG meno invasiva dell'aborto chirurgico, e quindi anche fonte di minor sofferenza – sia fisica che psicologica -,e disincentivarlo diventa strumentale a quella "visione colpevolizzante" della donna che sceglie di abortire.

Nel viaggio compiuto da Laura Fermonti, tappa dopo tappa, emergono le mille difficoltà che una donna che decide di abortire tramite la pillola abortiva molto verosimilmente si troverà davanti. È difficile anche solo contattare i consultori per chiedere informazioni, poi c'è il problema della controinformazione scientifica. Ad esempio, come spiega la dottoressa Tullia Todros, ex Primaria del reparto di ginecologia e ostetricia dell’ospedale Sant’Anna di Torino, nel documentario, quando venne introdotta la RU486 si fece passare il messaggio che quest’ultima fosse stata introdotta in via sperimentale, quando invece era già disponibile da decenni in diversi Paesi del Nord Europa.

Anche su questo fronte, pesano inoltre il nodo dell'obiezione di coscienza, i tempi troppo lunghi, fino allo stigma sociale sull’interruzione di gravidanza e alla solitudine in cui spesso si ritrovano le donne che decidono di abortire.

A fronte di ciò, quindi, perché rendere l'aborto più semplice (è la domanda implicita conseguenza di questo sub-cultura). "L’impressione che ho è che l’aborto chirurgico venga incentivato rispetto a quello farmacologico perché l’idea di andare sotto ai ferri fa più paura che prendere un paio di pillole, e la paura è un altro modo per disincentivare la decisione di abortire".

Ma rendendo più difficile l'aborto non si convince una donna a non abortire – cosa comunque inammissibile -, ma si rischia solo di mettere a rischio la sua vita. "È importante ricordare – aggiunge Formenti – che nei Paesi in cui l’aborto è vietato o disincentivato, è più elevato il numero di donne morte per emorragia. Per questo motivo essere a favore della vita significa soprattutto difendere la vita delle donne, perché impedire l’aborto non significa eliminare l’aborto, ma costringere le donne ad abortire illegalmente e con metodi non sicuri così da mettere a rischio anche la loro di vita. Invece garantire l’aborto significa difendere la vita delle donne".

Fonte | Medici del Mondo

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