La Cina e la paura di nuove varianti, il prof. Cauda: “Credo che il virus tenderà a non mutare più. Ormai siamo nell’endemia”

Analizzando la situazione epidemiologica cinese, il Direttore dell’Unità di Malattie infettive Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS di Roma ha mostrato ottimismo nei confronti delle due paure che giungono da Oriente: quanto è alto oggi il rischio di incorrere in una nuova e più pericolosa variante di Sars-CoV-2 e se dobbiamo temere una nuova ripresa della pandemia a livello globale.
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Kevin Ben Alì Zinati 13 Gennaio 2023
* ultima modifica il 13/01/2023
In collaborazione con il Prof. Roberto Cauda Direttore dell’Unità di Malattie infettive Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS di Roma

Oggi ci sono due storie riguardo alla Cina. Una è scritta dal suo stesso Governo e racconta di una Cina praticamente vittoriosa sulla pandemia. Di un paese in cui l’emergenza Sars-CoV-2, divenuta ormai una condizione sanitaria prevedibile e sotto controllo, non farebbe più paura.

Capisaldi della narrazione sono i numeri diffusi ufficialmente da Pechino: tre decessi legati al virus registrati l’8 gennaio 2023, due il giorno prima, uno dei tassi di morte per infezione più bassi al mondo, con “soli” 5.272 decessi, e un numero di contagi fermo a poco meno di 2 milioni.

In questa storia la Cina sembrerebbe essersela cavata meglio di tanti, insomma. Meglio perfino della piccola Italia, flagellata da più di 25 milioni di casi e oltre 185mila morti. Leggendo quei numeri (e tralasciando la questione di come sono stati conteggiati i decessi, tra morti con e per Covid: questa è un’altra storia ancora), il paragone viene naturale.

Ti starai domandano, infatti, cosa sarebbe successo se la nostra popolazione anziché fermarsi a poco meno di 60 milioni di abitanti avesse sfiorato la demografia della Cina, che al 2021 ospitava addirittura 1,4 miliardi di persone. Chissà.

Poi però c’è l’altra storia. Quella «vera», raccontata dal resto del mondo e della comunità scientifica. Una storia nella quale la Cina appare per quello che oggi davvero è: un paese ancora drammaticamente assediato da Sars-CoV-2.

Eccone i passaggi salienti. Contagi esplosi, oltre 248 milioni di persone infettate nei primi 20 giorni di dicembre (il 18% della popolazione), tamponi positivi per quasi il 90% delle persone che vivono nell’Henan, la terza provincia più popolosa della Cina (vuol dire circa 88,5 milioni di persone su 99,4 milioni).

E poi ancora: pazienti abbandonati su lettini e barelle stipate nei corridoi di pronto soccorso ingolfati come una tangenziale all’ora di punta, almeno 5mila morti quotidiani, una vaccinazione poco efficace. Paura.

Paura loro ma un po’ anche nostra. L’allarmante situazione epidemiologica registrata in Cina tra vecchio e nuovo anno in qualche modo ci ha portati a confrontarci di nuovo con i timori di Sars-CoV-2. Nelle case e nei laboratori di tutto il mondo a un certo punto ci si è chiesti quanto sia davvero alto il rischio di incorrere in una nuova e più pericolosa variante di Sars-CoV-2. E poi, se dovremmo davvero preoccuparci di una nuova ripresa della pandemia a livello globale.

In Cina, nei primi 20 giorni di dicembre, si sarebbero infettate oltre 248 milioni di persone infettate, il 18% della popolazione

Il professor Roberto Cauda ha mostra un certo ottimismo su entrambi i fronti. Il rischio che l’ondata anomala di Covid-19 dalla Cina si riversi in Occidente e in Europa, secondo il Direttore dell’Unità di Malattie infettive Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS di Roma non è elevato e la situazione cinese sarebbe confinata e circoscritta a quel paese. Un vaso colmo che però non dovrebbe traboccare oltre i nostri confini.

La Cina infatti ha caratteristiche tali che la rendono un caso a se stante, su tutti la gestione stessa della pandemia. “In un primo memento si è cercato di attuare lo stesso sistema messo in atto con successo nel 2002-2003 con Sars-CoV-1, la cosiddetta politica «Zero Covid». Un insieme di misure, ha ricordato il professor Cauda, che tuttavia funzionò perché in quel caso “si trattava di un virus diverso, più letale ma meno trasmissibile e non caratterizzato dalla presenza di infezioni asintomatiche”.

Con Sars-CoV-2 le cose sono andate diversamente, e non solo perché si è dimostrato molto più diffusivo del «cugino». La strategia dei lockdown totali di città popolate da milioni di persone allo scoccare di un tampone positivo inizialmente ha contribuito a ridurne la circolazione ma alla lunga ha sfiancato la popolazione, stanca e ammaliata dal resto del mondo ormai tornato alla normalità.

Il Governo di Pechino si è così trovato schiacciato dalle critiche e dalle proteste popolari contro le restrizioni e la pressione sociale a cavallo tra novembre e dicembre l’ha spinto a fare un passo indietro eliminando tutte le misure e riaprendo i confini nazionali al turismo.

Il pugno duro utilizzato per arginare la pandemia ha generato un (altro) effetto boomerang devastante: “Ha impedito una serie di infezioni dovute al virus che però, a loro volta, hanno bloccato lo sviluppo di un’immunità di tipo naturale”. Così, quando la Cina ha rimesso in moto la propria normalità e milioni di persone mai infettate prima sono entrate in contatto con il virus, i contagi sono inevitabilmente esplosi. E con gli imminenti festeggiamenti per il Capodanno lunare, la situazione potrebbe peggiorare ulteriormente.

La peculiarità della situazione epidemiologica della Cina si deve anche alla politica di vaccinazione messa in campo dal Governo. Una campagna poco capillare (specialmente verso le persone fragili per età e patologie) e soprattutto portata avanti con vaccini meno efficaci. “I vaccini somministrati alla maggior parte della popolazione – ha spiegato il professor Cauda – sono costituti da virus inattivato. Nei confronti delle precedenti varianti avevano dato risultati anche discreti ma quando è comparsa la variante Omicron hanno funzionato meno bene”. 

vaccino-bivalente-covid

Proprio Omicron rappresenta infine il terzo fattore del singolare quadro cinese. L’elemento che, seguendo la riflessione del Direttore di Malattie infettive del di Roma, ci porta ad affrontare l’altra fetta di paura, relativa al rischio di una nuova variante proveniente dalla Cina.

Stando ai dati disponibili e anche agli obbligatori sequenziamenti dei tamponi effettuati negli aeroporti, italiani e non solo, su viaggiatori provenienti dalla Cina, oggi possiamo dire con un certo grado di certezza che nel Paese Sars-CoV-2 sta circolando praticamente solo sotto forma di variante Omicron. “Ad oggi tutti i dati non hanno mostrato varianti diverse rispetto a quelle che conosciamo, lo stesso Gryphon è una sottovariante, ben nota, di Omicron”.

I vaccini usati in Cina hanno funzionato meno bene contro Omicron

Prof. Roberto Cauda, Policlinico Gemelli di Roma

Per questo, ha spiegato il professor Cauda, sebbene l’esplosione di contagi e la massiccia circolazione del virus potrebbero effettivamente favorire le sue mutazioni, “il rischio di forme diverse e più pericolose del virus oggi sembra molto limitato. In linea teorica la possibilità di avere varianti diverse esiste ma potrebbe non essere così probabile”.

Per arrivare a comprendere in modo ancora più profondo perché Omicron avrebbe un ruolo decisivo nel basso rischio di forme nuove del virus devo guidarti dentro un’altra brevissima storia, quella delle varianti di Sars-CoV-2 (le cosiddette Variant Of Concern e Variant of Interest).

Ad inizio pandemia, gli scienziati non si aspettavano che il nuovo coronavirus potesse mutare così tanto: il professor Cauda ci ha spiegato che la comparsa di forme mutate nei coronavirus non è poi così frequente.

Poi però è insorta (o è stata importata) la prima variante, quella che ha prodotto tutto ciò che è avvenuto nel nostro paese dal marzo fino all’autunno del 2020. “Quella variante non ha ricevuto un’indicazione geografica, è stata chiamata D614G e in poco tempo è diventata prevalente nel mondo grazie a una serie di mutazioni che la rendevano molto trasmissibile e più aggressiva rispetto al ceppo originale di Wuhan”.

In successione hanno poi fatto il loro ingresso in scena la «variante inglese», ribattezzata «Alfa» che ha avuto una diffusione globale, mentre la «Beta» e la «Gamma» hanno avuto diffusione più regionali. A un certo punto ci siamo trovati a fare i conti con la «variante indiana», la famosa «Delta», che ad oggi ha rappresentato la forma di virus più grave dal punto di vista clinico. “Le varianti partite dall’archetipo iniziale di Wuhan e arrivate fino a Delta, tuttavia, erano mutazioni che rientrano nella famiglia del ceppo originale”.

Ad oggi i dati non hanno mostrato varianti diverse rispetto a quelle che conosciamo in Cina

Prof. Roberto Cauda, Policlinico Gemelli di Roma

Il grande salto è avvenuto in Sudafrica con la variante Omicron, “una forma talmente diversa dalle altre che qualcuno ha addirittura pensato di chiamarla Sars-CoV-3”. Da Omicron sono derivate moltissime varianti e sottovarianti, al punto che molti ricercatori hanno parlato della cosiddetta «zuppa di Omicron».

Tutte queste forme virali però condividono la medesima caratteristica, ovvero la minor gravità clinica. L’infezione da variante Omicron infatti tende a fermarsi di più nelle alte vie respiratorie dando luogo a una malattia in genere meno grave. Per questo si vedono molte meno polmoniti e molti più raffreddori e mal di gola.

Quindi: perché in Cina sembrano non esserci nuove varianti e il rischio che si sviluppino oggi è molto limitato? Il professor Cauda ha riposto citando un collega con cui ha collaborato spesso in questo periodo di emergenza sanitaria, Massimo Ciccozzi del Campus BioMedico di Roma: “Le leggi della biologia e dell’evoluzione ci dicono che si va sempre avanti e non si torna indietro. Facendo mia questa sua riflessione dico che essendo ormai nella zuppa di Omicron, credo rimarremo in Omicron. La quale, a meno che non succeda qualcosa di imprevedibile, dovrebbe mantenere la sua alta trasmissibilità e una bassa patogenicità”.

In altre parole, se gli altri coronavirus con cui ci siamo confrontati nel corso del tempo si sono adattati all’uomo dando forme di raffreddori, mal di gola e sindromi simil influenzali, perché Sars-CoV-2 dovrebbe cambiare e abbandonare Omicron, che è la forma che più gli permette di sopravvivere? “Se le leggi dell’evoluzione vengono rispettate si andrà sempre avanti e siccome anche il virus deve andare avanti, questa potrebbe essere la sua evoluzione”.

Omicron dovrebbe mantenere la sua alta trasmissibilità e una bassa patogenicità

Prof. Roberto Cauda, Policlinico gemelli di Roma

L’ottimismo del professor Cauda trova forma verbale e concreta in un concetto con cui avrai ormai familiarità. Christian Drosten, che ha una lunga esperienza sui coronavirus avendo isolato Sars-CoV-1 e Mers e che è stato in prima linea fin dalle prime battute della pandemia, giusto pochi giorni fa ha sostenuto che la pandemia è finita e che siamo entrati nella fase dell’endemia. Ecco, credo sia così. Mi identifico molto in queste parole.

Saremmo entrati in un fase di endemia, insomma. Di coabitazione con un virus stabilmente presente e circolante nella popolazione e responsabile di un numero di infezione più o meno elevato ma è uniformemente distribuito nel tempo. Fa senso dirlo, ma oggi il Covid-19 starebbe davvero tendendo verso un destino simile a quello dell’influenza.

Questo anche perché sul destino della pandemia è molto forte la pressione dei vaccini: considera per esempio che oggi, in Italia, quasi l’85% della popolazione è vaccinata. Tieni conto, poi, che i vaccini impiegati non sono sterilizzanti e dunque non impediscono dunque al virus di trasmettersi. “Quello contro il Covid è un vaccino protettivo perché protegge nei confronti delle forme gravi di malattia”.

Quanto successo l’estate scorsa nel nostro Paese un po’ ce lo dimostra. L’ondata con oltre 100mila contagi al giorno non ha portato ad un elevato numero di ospedalizzazioni e di decessi come era avvenuto per le ondate precedenti. Anzi, è rimasto contenuto. “È per questo – ha insistito il professore Cauda – sono ottimista per il 2023.

Alcuni esperti dicono che siamo entrati nell’endemia e credo sia così

Prof. Roberto Cauda, Policlinico Gemelli di Roma

A soffiare sulla fiamma dell’ottimismo ci sono infine i vaccini bivalenti, che sarebbero potenzialmente in grado di proteggerci anche da altre eventuali varianti. “Quando parliamo di vaccini parliamo di due tipi di protezione. Una è legata agli anticorpi, che per ragioni biologichelo si osserva anche dopo l’infezione, tendono a una progressiva diminuzione da cui dipendono poi le reinfezioni di chi è già stato infettato o le infezioni intercorrenti non gravi nei vaccinati. L’altra è l’immunità cellulare, che ci protegge dalle forme gravi di malattia e che è indirizzata verso altre parti della proteina Spike che, magari, in una nuova variante resta invariata”.

Mettendo insieme tutti questi elementi, la conclusione della storia (non solo quella legata alla Cina) secondo il professor Cauda fa ben sperare: “Se dovesse mai insorgere una variante diversa da Omicron – ha concluso – potremmo già avere le nostre armi di difesa. Bisognerà comunque aspettare e vedere quella che sarà l’evoluzione epidemiologica. Ad inizio gennaio 2023 questa è la mia opinione ma sono pronto a cambiarla in base a cosa ci dirà la scienza. La pandemia ci ha insegnato ad essere flessibili”.

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