Un’imbarcazione battente bandiera statunitense si avventura al largo dell’Oceano Pacifico nord-orientale, a circa 80 chilometri dalla costa della California.
Mentre le onde si infrangono sulla chiglia della nave, gli operai con divisa colorata ed elmetto calato sulla testa fanno scivolare fuori bordo un fusto di acciaio.
L’acqua schizza al contatto con il contenitore, carico di materiale radioattivo e inglobato con del cemento. Il fusto affonda e va sempre più giù finché, pesante, non si appoggia sul fondale.
È il 1946 ed è il primo sversamento di rifiuti nucleari in mare della storia. Non sarà l’unico. Accanto al primo contenitore poi ne è sceso un altro. Poi un altro. E un altro ancora. Nei successivi 40 anni, nei mari e negli oceani di tutto il mondo ne sono stati depositati a centinaia, migliaia.
Oggi è «facile» guardare indietro e puntare il dito, accusando Stati e governi di aver «inquinato» il mondo e di averlo coscientemente spinto verso il disastro. Non voglio confutare il risultato di decenni di sversamenti: è un dato di fatto che larghi tratti dei fondali dei nostri mari siano stati trasformati in teatri sommersi, dove file di fusti zeppi di radionuclidi giacciono come spettatori silenziosi.
In questa rubrica voglio però affrontare alcune delle domande che nella tua mente spunteranno spontanee come margherite in un prato primaverile: questi rifiuti sono pericolosi? C’è un potenziale rischio per l’uomo nascosto nelle profondità marine? E per l’ambiente?
Soprattutto, voglio provare a riflettere su come siamo arrivati ad utilizzare mari o oceani alla stregua di discariche libere e aperte. Partendo però, da un concetto tornato più volte lungo questa ricerca: ciò che consideriamo «sicuro» e «opportuno» varia in base all’evoluzione della scienza, così come la graduale progressione del concetto di «rischio».