Sappiamo chi e dove: ma conosciamo esattamente quali materiali radioattivi sono stati gettati in acqua? 

Per la maggior parte, si tratta di rifiuti solidi a bassa o di media intensità provenienti dalle attività di ricerca nucleare, di medicina e dall’industria. Negli oceani, tuttavia, sui fondali si trovano anche reattori nucleari ancora carichi di combustibile.
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Rubrica a cura di Kevin Ben Alì Zinati
14 Novembre 2022
In collaborazione con Mario Dionisi Responsabile dell’Area Gestione rifiuti radioattivi, spedizione e trasporti di materie radioattive dell’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione

Grande, grandissimo. Profondo. E gratuito. Il mare fin da subito si è dimostrato agli occhi di molti come il luogo perfetto dove nascondere i prodotti di scarto dell’attività nucleare (e non solo: ricordi il marine litter?).

Secondo le stime, il 50% del totale degli sversamenti in mare da imbarcazioni è finito nell’Oceano Atlantico, il 45% nel mare Artico (frutto dall’Unione Sovietica e della federazione Russa) mentre il 40% del totale (quindi i 3/4 di quel 50% dell’Atlantico) sono rappresentati dal Regno Unito.

Tutti i dati che ti ho fornito derivano dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica che tra il 1949 e il 1982 ha censito, monitorato e tracciato tutte le attività di «sea dumping» in ogni luogo del mondo.

Questo perché la maggior parte delle operazioni di scarico in mare sono state eseguite sotto lo sguardo e l’approvazione delle autorità nazionali, e in molti casi anche sotto il controllo di un meccanismo consultivo internazionale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico/Agenzia per l’energia nucleare (OCSE/NEA).

Chiunque può accedere al database della AIEA e verificare di persona quanto è stato gettato in mare, dove, in che modo, quando, da chi e a che coordinate.

Scaricare rifiuti nucleari in mare era, in sostanza, una prassi, una pratica comune e perpetrata da buona parte degli Stati «nuclearizzati». Un’attività legale e sottoposta a un graduale processo normativo. 

Il punto però è che sappiamo chi e dove: ma sappiamo cosa è stato gettato in mare?

Di che rifiuti si parla?

Nella stragrande maggioranza si tratta di rifiuti solidi a bassa o di media intensità: materiale radioattivo proveniente quindi dalle attività di ricerca nucleare, di medicina e dall’industria.

Una buona fetta è il risultato anche delle operazioni del ciclo del combustibile nucleare, dalla decontaminazione e del decommissioning di strutture nucleari.

I rifiuti liquidi sono stati smaltiti principalmente nell’Oceano Pacifico e nell’Artico, dove soprattutto l’Unione Sovietica nel tempo ha rovesciato anche i cosiddetti «vessel» dei reattori nucleari, cioè lo «scrigno» in acciaio che contiene il nocciolo di un reattore senza combustibile.

Sono stati gettati anche reattori nucleari ancora carichi di combustibile e la quasi totalità si trova sui fondali del mare Artico (magra, magrissima consolazione?).

Parlando di radionuclidi, secondo la AIEA nell’Oceano Atlantico settentrionale un terzo degli sversamenti riguardava il trizio, «che insieme ad altri emettitori beta e beta-gamma come 90Sr, 134Cs, l37Cs, 55Fe, 58Co, 60Co, 125I e 14C, costituiva oltre il 98% dell'attività totale dei rifiuti».

Sui fondali vi sono anche basse quantità (meno del 2%) di radionuclidi emittenti radiazioni alfa, con isotopi di plutonio e americio che rappresentavano il 96% degli emettitori alfa presenti. «Nel Mar Artico i prodotti di fissione, in particolare 90Sr e 137C costituivano l’86% del totale, quelli i prodotti di attivazione, come 60Co, 63Ni e 152Eu, rappresentavano il 12% e il restante 2% erano attinidi, dominato da 241Pu».

I fusti contenitori

Lo smaltimento avveniva attraverso l’utilizzo di contenitori metallici o in acciaio con una capienza di oltre 200litri e un rivestimento con una matrice di cemento e bitume.

L’Ingegnere Mario Dionisi, responsabile dell’Area Gestione rifiuti radioattivi, spedizione e trasporti di materie radioattive dell’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione, ci ha spiegato che a parte gli affondamenti eseguiti in ambito militare prima degli anni ’60, di cui non si hanno molte informazioni, i rifiuti radioattivi smaltiti negli anni ’60 e ’70 erano tutti confezionati secondo specifiche linee guida tecniche della NEA e della AIEA.

“Tali specifiche – ha chiarito l’ingegnere Dionisi – avevano lo scopo di ritardare il più possibile la diffusione dei radionuclidi in mare, non tanto sulle caratteristiche del contenitore che comunque non può resistere a lungo in ambiente marino, ma sulle caratteristiche della matrice di cemento che ingloba il rifiuto”.

L’effetto dello stesso ambiente marino circostante è un fattore di rischio non indifferente per la vita di un fusto di materiale radioattivo. Pensa ai potenziali danni causati della corrosione, dell’interazione con i microrganismi acquatici o quelli dei processi di ossidazione.

Devi tenere in considerazione anche i pericoli legati alle attività di smaltimento. Il traporto dal luogo di origine dei rifiuti, infatti, in molti casi prevedeva una delicata combinazione di movimenti su rotaia, camion e nave che sottoponevano i contenitori a stress notevoli.

Anche la velocità con cui il fusto impattava con il fondale marino rappresenta una variabile non di poco conto, specialmente se pensi che spesso il contenitore si schiantava al suolo con una velocità di diversi metri al secondo.

Per la AIEA, inoltre, anche le radiazioni stesse contenute all’interno contribuirebbero alla compromissione della sua tenuta. Simili concentrazioni di radiazioni potrebbero agire sulle proprietà della matrice solidificata di rifiuti causando alterazioni significative.

I contenitori ammassati in fondo al mare, dunque, non erano stati pensati per durare in eterno. Quelli in acciaio al carbonio, secondo l’esperto dell’ISIN, potevano resistere per esempio “per periodi non tanto lunghi (10-40 anni) mentre le matrici di cemento che inglobavano i rifiuti radioattivi, erano qualificate per resistere tempi superiori ai 100 anni”.

Nelle parole della AIEA: «La progettazione degli imballaggi per i rifiuti scaricati non era intesa a garantire il confinamento dei radionuclidi all'interno degli imballaggi ma, piuttosto, a garantire che i rifiuti fossero trasportati intatti sul fondo del mare; successivamente si prevedeva che si verificasse il processo di lenta dispersione nell'acqua circostante».

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Giornalista fin dalla prima volta che ho dovuto rispondere alla domanda “Cosa vuoi fare da grande”. Sulla carta, sono pubblicista dal altro…