Tutti quei fusti zeppi di materiale nucleare sul fondale dei nostri mari sono un pericolo per l’uomo? E per l’ambiente?

Nonostante oggi non risultino grosse perdite dai fusti contenenti i rifiuti, la radioattività affondati in mare sarebbe destinata ad essere diffusa nell’ambiente. E i pareri, sull’effettiva pericolosità, sono diversi. C’è chi ritiene che la distanza dalle coste e la profondità tenga l’uomo al sicuro e chi, invece, si dice preoccupato perché i report internazionali “raconterebbero solo una parte della storia”.
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Rubrica a cura di Kevin Ben Alì Zinati
5 Dicembre 2022
In collaborazione con Gastone Castellani e Silvestro Greco Ordinario di fisica applicata e direttore la scuola di fisica-medica dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna ; Biologo marino e dirigente di ricerca della Stazione Zoologica Anton Dohrn

Oggi il problema dello sversamento (legale) di rifiuti radioattivi dalle imbarcazioni non esiste più da almeno 30 anni. In un certo senso, dunque, dobbiamo fare i conti «solo» con ciò che è stato fatto in passato.

Come per gli incidenti o le sue potenzialità di alleato nella lotta al cambiamento climatico, il nucleare resta un tema controverso anche quando si cerca di analizzare i possibili pericoli legati ai fusti di rifiuti radioattivi depositi sui fondali dei nostri mari. In base ai dati forniti dalla AIEA, gli emettitori di radiazioni beta e gamma contenuti nei fusti buttati in mare rappresentano oltre il 99% della radioattività totale dei rifiuti.

Come ti abbiamo spiegato, le Beta e le Gamma sono tra le meno pericolose per l’uomo e, scrive l'Agenzia, derivano tutte da prodotti di fissione e attivazione come:

  • stronzio-90m
  • cesio-137
  • ferro-55
  • cobalto-58
  • cobalto-60
  • iodio-125
  • carbonio-14
  • trizio

Questi conterebbero per circa un terzo della radioattività totale scaricata nei siti dell’Atlantico nord-orientale. «I rifiuti smaltiti contenevano anche basse quantità di nuclidi emettitori di alfa con plutonio e americio che rappresentano il 96% degli emettitori alfa presenti».

Secondo l’ingegnere dell’Isin Mario Dionisi, la radioattività dei rifiuti radioattivi affondati in mare, sia volutamente che in seguito ad incidenti, tuttavia “è destinata ad essere diffusa nel mare.

Un destino non troppo remoto specialmente se consideri le caratteristiche dei fusti nei quali sono stati stipati e le condizioni ambientali cui sono sottoposti. Eppure, ci ha detto Dionisi, la situazione apparirebbe sotto controllo.

“Successivamente all’abbandono della pratica di affondamento in mare, nel 1977, la NEA ha istituito un programma di ricerca e di sorveglianza ambientale (CRESP). Da allora – ha spiegato – l’Atlantico nord-orientale è stato controllato su base annua. I campioni di acqua di mare, sedimenti e organismi marini profondi raccolti in vari siti non hanno mostrato alcun eccesso dei livelli di radionuclidi rispetto a quelli derivanti dalla ricaduta delle esplosioni in aria di ordigni nucleari e dei test atomici degli anni ’60”.

Solo in alcune occasioni il cesio e il plutonio sarebbero stati rilevati a livelli più alti, ma solo in campioni prelevati vicino ai rifiuti affondati. “Nel periodo 1993-96 la AIEA ha organizzato il progetto International Arctic Seas Assessment Project con l’obiettivo di valutare gli effetti della eventuale diffusione di radioattività ma non risultarono sostanziali perdite dai rifiuti e dai reattori affondati”. 

Per l’ingegnere, se mai dovesse verificarsi una perdita di uno o più fusti, i potenziali danni per l’uomo sarebbero comunque limitati. Anche perché, aggiunge, “per la maggior parte dei casi, gli affondamenti sono avvenuti in profondità (da 2000 m fino a oltre 4000 m) e l’attività totale è comunque dell’ordine di un centesimo dell’attività totale dei radionuclidi naturali già presenti negli oceani (ca 1010 TBq di 40K, 226Ra, 232Th e 210Po)”.

Per un corpo umano, l’esposizione a una massiccia dose di radiazioni rappresenta un grave pericolo. La radioattività può comportare danni al Dna e innescare mutazioni responsabili di diversi tipi di tumori.

Le esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki – più che Chernobyl dove la mancanza e l’occultamento delle informazioni sono stati sistematici – ci hanno insegnato molto sulla sindrome da radiazioni. Sappiamo infatti che gli effetti possono anche essere tardivi, con conseguenze simili a quelle lasciate da certi virus incorporati nel Dna che restano silenti per anni prima di risvegliarsi.

Gli effetti dalle radiazioni dipenderebbero poi anche dai tessuti colpiti: alcuni, infatti, sono più radioassistenti di altri. L’uomo tuttavia sarebbe comunque al sicuro da tutti questi pericoli: i fusti radioattivi scaricati in mare non rappresenterebbero un problema urgente nemmeno secondo il professor Gastone Castellani.

Ordinario di fisica applicata e direttore la scuola di fisica-medica dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, Castellani è convinto che oggi i contenitori “non rappresentino un imminente pericolo per l’umanità”. Ci ha spiegato che se questi materiali si trovassero vicini alla riva, alla costa o in zone dove l’uomo può arrivare, allora potrebbero esserci dei rischi, specialmente in caso di perdite da uno o più di questi fusti. “Se però si trovano in luoghi difficilmente accessibili come sembra dai dati, allora pericoli per l’uomo non credo ce ne siano”. 

C’è però chi non si fida. Come il professor Silvestro Greco, biologo marino e dirigente di ricerca della Stazione Zoologica Anton Dohrn che, invece, è decisamente allarmato per tutto quel materiale nucleare affondato e accumulatosi sul fondale dei nostri mari e oceani.

“Vari studi dimostrano che la durata media dei fusti di metallo poteva durare tra i 20 e i 25 anni al massimo. Immersa nelle acque del nostro Pianeta c’è una quantità di sostanze estremamente nocive che rischiano di disperdersi ha denunciato il professor Greco, già in prima linea nel 2009 quando all’epoca del suo assessorato all’ambiente della Regione Calabria battagliò per portare a galla la verità sulle «navi dei veleni» e gli smaltimenti illegali di sostanze tossiche e radioattive nel Mediterraneo legate ad attività criminali.

Il professor Greco, biologo marino, è preoccupato per l’enorme quantità di materiale radioattivo finita nei nostri mari.

Secondo il biologo, i documenti ufficiali delle agenzie internazionali sfortunatamente raconterebbero solo una parte della storia.

Vero: nei fusti ci sarebbero materiali di scarto derivati dalle attività di ricerca e di medicina nucleare, quindi di bassa e media intensità. Ma non solo. Là dentro c’è di tutto e di più. Io non ci credo che non siano stati gettati in mare anche materiali altamente radioattivi. Bisognerebbe avere la coscienza di fare una campagna verità. Sia sul fronte pubblico che ovviamente sule attività illegali e criminali”. 

Se radionuclidi come il cesio 134 o il ferro 55 sono ormai scomparsi dal momento che hanno entrambi un’emivita abbastanza bassa (2,06 anni il primo e 2,74 il secondo), altri elementi invece hanno la capacità di resistere ed emettere radiazioni per periodi di tempo decisamente più lunghi. “Il plutonio 238, 239, 240, 241 e 242 hanno una durata che può variare da alcune decine di anni fino a 300mila anni – ha precisato il biologo -. Il trizio è considerato a bassa tossicità ma si lega molto facilmente alla materia organica e quindi agli organismi”. 

Per il professor Greco bisognerebbe avviare un monitoraggio per capire a che livello di inquinamento radioattivo siamo “perché dipende tutto dalla quantità di cui stiamo parlando e della natura di quello che è rimasto: se è plutonio sì, sono preoccupato”. La radioattività in mare, infatti, interessa gli organismo viventi, il suo primo effetto è diretto sul Dna delle specie, modificandolo a livello genetico.

La soluzione? Di certo non spostarli né avviare opera di recupero. I rischi di rotture o fuoriuscite sarebbero troppo elevati. Che servirebbe fare dunque? Tombare i rifiuti. Ormai il danno è fatto, l’unica cosa sensata da fare sarebbe lasciarli lì dove sono, gettare una colata di cemento marino e costruire piccoli mausolei sottacqua”.

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Giornalista fin dalla prima volta che ho dovuto rispondere alla domanda “Cosa vuoi fare da grande”. Sulla carta, sono pubblicista dal altro…