Tra modelli da seguire e l’evoluzione del concetto di rischio: siamo stati solo “folli” a gettare rifiuti nucleare in mare?

Abbiamo davvero scelto di gettare materiale radioattivo in mare? E davvero le autorità internazionali l’hanno permesso e addirittura regolamentato? La risposta è sì e per provare a capire devi tenere a mente che i concetti di «sicuro», «opportuno» e «rischio» variano in base all’evoluzione della scienza.
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Rubrica a cura di Kevin Ben Alì Zinati
12 Dicembre 2022
In collaborazione con il Prof. Mauro Elli Ricercatore di storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano, specializzato nello studio delle interrelazioni tra politica estera e tecnologia durante la Guerra Fredda, con particolare attenzione all’energia nucleare

Perché il mare, dunque? La domanda ti starà riempiendo la testa fin dal capitolo uno di questa rubrica. Eravamo davvero così folli e scellerati, ieri, da pensare che scaraventare sul fondale degli oceani migliaia di fusti zeppi di materiale nucleare fosse una buona idea?

Le agenzie internazionali hanno davvero autorizzato, monitorato e quindi permesso di «inquinare» il Pianeta che ci ospita? La risposta, come hai visto, è .

Nell’indagare i perché dietro queste scelte devi tenere a mente, prima di tutto, che ieri come oggi non tutti i paesi avevano a disposizione un luogo adatto alla raccolta di questi rifiuti. E se anche l’avessero avuto, si sarebbe comunque trovato molto vicino all’uomo e i costi di realizzazione sarebbero stati esorbitanti così come i tempi di costruzione.

“Gli sversamenti in mare sono basati, tra gli altri, sul concetto della soglia massima accettabile, che a sua volta si rifà ad altri modelli. Come quelli che tentano di descrivere in che modo i radionuclidi possano passare all’uomo con il giro delle correnti o la catena alimentare, e il loro impatto. Il punto però è che non ci sono modelli realmente affidabili in grado di dirci cosa potrebbe succedere negli oceani”.

Quello che ha cercato di spiegarci il professor Mauro Elli, ricercatore di storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano specializzato nello studio delle interrelazioni tra politica estera e tecnologia durante la guerra fredda, con particolare attenzione all’energia nucleare, è che questi modelli altro non sono che delle «semplificazioni».

Seguendo un modello

Un modello matematico è uno strumento costruito dall’uomo per dare forma al proprio pensiero e tentare di rappresentare e descrivere uno o più fenomeni.

Attraverso numeri, costanti, variabili e coefficienti decisi sostanzialmente per convenzione, l’uomo da sempre tenta di descrivere la realtà in un linguaggio che capisce e domina – la matematica – per tentare di comprenderne la complessità e prevederne i possibili sviluppi.

Ciascuno degli elementi di un modello si basa su un consenso degli esperti, fondato a sua volta – in larga parte – sul grado di conoscenza acquisita fin al momento della sua creazione.

Nel 1946, quando cominciarono gli sversamenti in mare, di questa materia non si sapeva pressoché nulla. Il nucleare era nato letteralmente «ieri» e le conoscenze riguardo la radioattività, i suoi effetti sull’uomo e l’ambiente erano primordiali e quindi incomplete.

Prova a immagina di ricostruire il volto di una persona attraverso una manciata di dettagli e basta. Il risultato cui giuggeresti sarebbe inevitabilmente un’approssimazione, che miglioreresti con il tempo, pezzo dopo pezzo.

Di un ambiente che non si conosce e di cui si hanno a disposizione pochi brandelli di informazione, che quadro si può creare dunque in una sola volta? Capisci quindi che, a un certo punto, gettare in mare i rifiuti radioattivi è diventata l’opzione più sicura e semplice oltreché economica per stoccare i rifiuti nucleari.

“Non sempre siamo certi che questi modelli funzionino davvero perché spesso non abbiamo dati esaustivi – ha continuato il professor Elli – Nel caso del «sea dumping» è prevalsa la filosofia che il rischio catastrofale molto remoto era un «non rischio». È una questione di ordine di probabilità”. 

L’idea sottostante ai modelli, dunque, era che il mare rappresentasse il luogo ideale dove depositare i rifiuti radioattivi. In caso di incidente, le eventuali fuoriuscite di materiale radioattivo dai fusti ammassati sui fondali si sarebbero disperse in aree molto più ampie, diluendo e ammortizzando così gli effetti nocivi per l’uomo e gli ecosistemi marini.

“Il risultato di queste azioni prevedeva sostanzialmente che il cambiamento della radiazione stimata sarebbe stato poco significativo o non significativo affatto ha aggiunto il professor Elli.

Con il passare del tempo però hai visto come siano state le stesse Agenzie che prima avevano dato luce verde ad ordinare il dietro-front. Dopo decenni di «sea dumping», alla fine è prevalsa una sempre più forte attenzione allo stato di salute dei mari e degli ecosistemi naturali.

Perché così tanto tempo per capire? 

Nel 1946 non c’erano molte soluzioni per lo stoccaggio dei rifiuti dell’attività nucleare e il mare a una fetta di scienza – non tutti gli addetti ai lavori infatti consideravano il «sea dumping» una buona cosa – era subito apparso come la scelta più ragionevole.

Ma perché è servito così tanto tempo per capire che – forse – non era buona cosa buttare scorie nucleari in mare?

Le conoscenze oceanografiche e degli ambienti biomarini disponibili in quel momento avevano dato luce verde e così gli oceani erano diventati i «medium disposal» perfetti. Poi le cose sono cambiate. A partire dagli anni ’60, abbiamo cominciato a prendere coscienza del crescente aumento di inquinamento del nostro Pianeta, a cui contribuivamo – e ancora lo facciamo – in maniera drastica.

Una scintilla ambientalista già precedentemente accesa da «Primavera silenziosa», l’opera con cui la ricercatrice statunitense Rachel Carson denunciava i pericoli per l’ambiente connessi all’utilizzo sfrenato di sostanze tossiche come il DDT e i pesticidi.

Per il professor Mauro Elli, poi, avrebbe contribuito “un cambio di sensibilità non semplicemente imputabile a un movimento ambientalista”. Buttare  rifiuti radioattivi in mare è gradualmente passata da pratica normale ad attività illegale perché ne abbiamo constatato l’effettivo pericolo.

“A partire dalla fine degli anni ’70 quello che cambia è la filosofia di fondo tra gli addetti ai lavori” ha continuato, utilizzando come esempio il tema della sicurezza di un impianto nucleare. “Fino un certo punto si è pensato che il rischio catastrofale molto remoto equivalesse a zero. Perciò un impianto era considerato ragionevolmente sicuro nella misura in cui determinati scenari non venivano presi in considerazione. Le cose poi sono cambiate perché si è cominciato ad adottare un principio di precauzione”. 

Se all’atto di costruzione di un impianto nucleare non si hanno conoscenze sufficienticertezze esaustive in grado di stabilirne i rischi in principio, allora il progetto si ferma.

Torniamo allora agli sversamenti di rifiuti nucleari in mare. Secondo il ricercatore della Statale di Milano, si è passati da un’assenza di normativa a una normativa grazie alla spinta ambientalista ma soprattutto per un cambio culturale orientato a una maggior prevenzione.

“Si è andati semplicemente verso la definizione di un processo controllato. I primi standard internazionali della AIEA sugli scarichi di materiale nucleare in mare sono del ’61, quando la questione ambientalista ancora non esisteva. L’input giunto ad un’appena costituita AIEA – ha concluso il prof Elli – arriva dalla Conferenza sulla legge del mare delle nazioni unite del 1958. Questo è normale. È una nuova industria che si sta costituendo e che va a creare dal nulla degli standard semplicemente perché prima non esistevano”. 

Te l’ho spiegato anche nei capitolo precedente, quando parlando della Convenzione di Londra ti ho accennato alla «black list e alla «grey list». La Convenzione non proibiva gli sversamenti dalla barca ma fissava i primi standard che poi vengono costantemente aggiornati.

Certo, nulla può toglierci dalla testa che a orientare le scelte di smaltimento in mare dei rifiuti nucleari abbiano contribuito anche ragioni più oscure o, se vuoi, meno nobili.

Non possiamo far finta che tutta la scienza fosse d’accordo a disseminare radionuclidi cementati in fusti d’acciaio metri sotto la superficie del mare. Né possiamo dimenticarci di tutte quelle attività che puoi derubricare sotto criminalità ed eco-mafia, che hanno fatto del mare e del Pianeta la propria discarica gratuita e personale.

Questa, però, è un’altra storia.

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Giornalista fin dalla prima volta che ho dovuto rispondere alla domanda “Cosa vuoi fare da grande”. Sulla carta, sono pubblicista dal altro…