Tra i grandi “assenti” della Cop26 c’è la questione degli allevamenti intensivi

Nonostante il notevole impatto sull’ambiente, durante il vertice Onu sui cambiamenti climatici che si è appena concluso a Glasgow non si è fatto alcun accenno al sistema degli allevamenti intensivi, che è al centro del nuovo documentario di Francesco De Augustinis “One Earth”.
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Federico Turrisi 16 Novembre 2021

Tra i responsabili della crisi climatica non c'è solo il settore dei combustibili fossili. Sappiamo infatti che anche quella grande macchina che è l'industria alimentare contribuisce in maniera rilevante alle emissioni di gas a effetto serra. Sotto la lente di ingrandimento ci sono soprattutto gli allevamenti intensivi. Da questi ultimi, secondo un'analisi di Greenpeace, proviene il 17% delle emissioni totali dell’Unione Europea, più di quelle di tutte le automobili e i furgoni in circolazione messi insieme.

Eppure, il tema è stato quasi del tutto ignorato alla Cop26 di Glasgow, che si è chiusa lo scorso 13 novembre. Proprio attorno all'insostenibilità ambientale degli allevamenti intensivi, e alla minaccia che rappresentano per la salute pubblica, ruota il nuovo documentario di Francesco De Augustinis "One Earth – Tutto è connesso". Presentato per la prima a volta a Milano nei giorni della Pre-Cop26, è visibile (anche in streaming) fino al 20 novembre nell'ambito della XIII edizione del Festival del Cinema dei diritti umani di Napoli.

Possiamo dire che il tuo ultimo lavoro vuole mettere in evidenza come salute umana, salute animale e salute degli ecosistemi siano interconnesse?

È così, si tratta di un equilibrio molto fragile. Lo dovremmo aver capito bene con la lezione del Covid-19. Lo scoppio della pandemia è stata una coincidenza incredibile, perché il documentario era stato scritto e immaginato poco prima. All'inizio del film si vede che sono in Cina, e trova spazio la teoria (anche se non è ancora stata confermata) dello spillover, ovvero del salto di specie, per cui il punto di partenza dell'epidemia sarebbe stato il wet market di Wuhan. Insomma, volevo già parlare di questo argomento ancora prima che si venisse a conoscenza del nuovo coronavirus. Come nel mio precedente documentario "Deforestazione Made in Italy", l'obiettivo è quello di allargare il campo visivo: parlare di molti temi per far vedere come siano collegati tra di loro.

Come mai hai voluto concentrare l'attenzione sugli allevamenti intensivi?

Perché è uno degli argomenti più scomodi. Se ci hai fatto caso, durante la Cop26 i leader mondiali si sono ben guardati dal mettere in discussione il modello dell'iperproduzione zootecnica. E mentre promettevano di fermare la deforestazione entro il 2030 (all'accordo ha aderito anche il Brasile di Bolsonaro, ndr), nessuno ha fatto riferimenti all'industria della carne, che è uno dei driver globali proprio della deforestazione.

Nel film si vede il presidente cinese Xi Jinping annunciare un impegno a contrastare la deforestazione. Ma suona come una presa in giro, se nel frattempo viene decuplicata la capacità produttiva in ambito zootecnico e in Amazzonia si continuano a costruire strade e ferrovie per accaparrarsi la soia, utilizzata come mangime per il bestiame. D'altronde, non possiamo neanche prendercela soltanto con la Cina, perché noi europei siamo i primi che non mettiamo sul tavolo la questione. E anzi, i cinesi non stanno facendo altro che replicare un modello messo a punto in Occidente, rendendolo ancora più "efficiente".

Nel documentario si vedono enormi fabbricati, su più piani, con una struttura meticolosa, e gli allevatori cinesi quasi si vantano di questo aumento della produttività; in Europa invece entrare in un allevamento intensivo è diventato ormai impossibile per un giornalista.

Effettivamente da noi c'è un movimento animalista che non risparmia dure critiche all'industria zootecnica e c'è molta diffidenza da parte dei produttori a far entrare le telecamere in un allevamento. In Cina è praticamente impossibile entrarci per motivi di biosicurezza, nel senso che ti costringono a una quarantena di 7 giorni prima di accedervi. Però è vero, sembra quasi che i cinesi vadano fieri di questa estremizzazione del modello intensivo, che per loro significa progresso tecnologico.

È un discorso culturale. Magari in futuro ci sarà lo sviluppo di una certa sensibilità anche in Cina, ma sarà graduale. Questo vale anche per il tema dei diritti dei lavoratori: nel film si parla di operai che vivono all'interno degli allevamenti per lunghi periodi e che hanno un solo giorno di riposo in due mesi. Anche in questo caso un fatto del genere non viene stigmatizzato; anzi, ti mostro la capacità della mia azienda di primeggiare in un settore.

Nel capitolo finale, intitolato "Una questione etica", uno degli intervistati dice che noi consumatori magari siamo anche consapevoli di tutto ciò, ma preferiamo voltarci dall'altra parte. Non si rischia così di scaricare le colpe sui consumatori stessi, quando sono i produttori ad alimentare un sistema del genere?

Capisco ciò che vuoi dire, e sono in parte d'accordo. Tuttavia, credo che la consapevolezza delle persone sia comunque il primo tassello. La spinta per cambiare le cose, per avere una maggiore trasparenza, non può che arrivare dal basso, dai cittadini-consumatori per l'appunto. Penso che il dibattito sugli allevamenti intensivi sia piuttosto inquinato. Per esempio, dal marketing: vedi l'immagine di animali felici sulle confezioni dei prodotti o quelle campagne di comunicazione che citano lo studio che sostiene che chi non mangia proteine animali presenta delle carenze dal punto di vista nutrizionale eccetera.

Non voglio dire che dobbiamo per forza diventare tutti vegani. Ci sono vari modi per rispondere a questo problema, purché si abbia la consapevolezza. Da quest'ultima nasce un'opinione pubblica sempre più forte su determinati temi, e di conseguenza l'azione politica. A mio avviso, riprendere in mano il valore delle proprie scelte a tavola, e più in generale in qualsiasi altro ambito di consumo, è fondamentale. L'industria allora si dovrà adeguare.