Abbarbicato sulla cima di un colle e intriso di storia e leggende: è il Castello di Roccascalegna

Tra i luoghi del Cuore individuati dal Fondo Ambiente Italiano, il castello abruzzese in provincia di Chieti è uno dei più affascinanti. Dove non arrivano le fonti storiografiche o gli atti notarili, si inseriscono le leggende sulle malefatte dei suoi padroni e sulle pareti macchiate irrimediabilmente di sangue.
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Rubrica a cura di Kevin Ben Alì Zinati
18 Settembre 2020

Il primo passo verso uno degli otto luoghi che (ri)scoprirai in questa rubrica inizia con una salita. Ti porto in cima a una lunga fila di scalini incastonati nella roccia, a strapiombo sulle acque del fiume Sangro, fino al Castello di Roccascalegna.

In ognuno di noi c’è uno posticino chiuso da un cartello penzolante con la scritta “riservato”. Ecco, lì dentro ci vanno i luoghi più belli che capitano di fronte ai nostri occhi: penetrano la retina e facendosi largo tra nervi e muscoli le bellezze della Natura o quelle costruite dall’uomo stesso si annidano in quello spazietto. Ne sa qualcosa il FAI, che ha chiamato quei borghi, giardini, castelli, monasteri, parchi, abbazie, eremi italiani “Luoghi del Cuore”. Sono meraviglie che impreziosiscono il nostro paese e che quindi non vanno dimenticati. Tra questi, quello in provincia di Chieti, in Abruzzo, è uno tra i più affascinanti poiché la sua storia, per la mancanza di notizie certe, è fatta in gran parte dalle leggende che nei secoli avrebbero avuto il Castello come palcoscenico.

I Longobardi 

Alla fine dei gradini oggi troveresti i resti di un ponte levatoio che gli abitanti utilizzavano per attraversare il piccolo fossato che vedresti lì davanti e anche come arma di difesa. Dal 600 d.C, anno in cui si fa risalire la fondazione del borgo (che oggi ospita sì o no 1400 persone) e del Castello da parte dei Longobardi, i suoi abitanti ne hanno fatto un gran uso. Tra il V e VI secolo d.C., infatti le lotte con i Bizantini infuriavano tra il Molise e l’Abruzzo e i Longobardi, trovarono su queste rocce il giusto luogo per fortificare il loro castello.

Non sarebbe casuale, quindi, se la notizia secondo cui il nome del castello risalirebbe proprio a quello di un nobile longobardo, “Aschari”. Secondo altri, invece, deriverebbe dal termine “Scarenna”, che potresti intendere come “il fianco scosceso di una montagna” mentre un’altra teoria vuole che il nome venga dalla scala di legno usata per accedere alla torre del castello. Secondo molti la prova della veridicità di quest’ultima fonte starebbe nello stemma del paese, in cui puoi notare appunto una torre e una scala di legno.

Passaggi di mani 

Dal 600 d.C ai giorni nostri, il castello di Roccascalegna ha visto diversi padroni. Dopo la dominazione longobarda passò a un soldato di ventura tedesco, come regalo per i servigi resi al seguito del feudatario Giacomo Caldora. I discendenti del soldato tedesco non ebbero vita facile e si macchiarono di diverse colpe, tra cui l’assassinio di un nobile, a causa delle quali agli inizi 1500 persero tutto, feudo e castello. Quasi ottant’anni dopo passò alla famiglia De Corvis di Sulmona, i cui componenti si ritrovarono anch’essi con le mani zeppe di sangue, questa volta per un fatto avvenuto addirittura dentro le mura del castello. Sembra infatti che durante la settimana Santa del 1720, per impaurire e fermare i più riottosi abitanti del feudo, il fratello del barone legò il parroco della vicina chiesa di san Pietro a una colonna e che questi morì dopo lunghe sevizie iniziate il giovedì Santo e durate fino al sabato.

Il nome del borgo deriverebbe dalla scala di legno usata per accedere alla torre del castello, simboli presenti anche nello stemma cittadino

E dopo i vari Annibale, Giuseppe, Giovanni Battista, Annibale III e Pompeo Filippo, alla fine il castello arrivò a un aristocratico di Palena, don Nicolò Nanni. La sua famiglia fu una delle più importanti dell’epoca, imparentata tra l’altro con quella dei Croce che probabilmente ricorderai perché diede i natali al filosofo e statista Benedetto. Fino agli anni 80 del Novecento il Castello rimase tra i Nanni e i Croce, poi fu donato al comune e restaurato.

Le leggende 

Quando superi il ponte e archi le soglie del castello oggi ti troveresti di fronte la torre del carcere con le segrete, la torre del magazzino con la cucina e la cappella dedicata a Santa Maria del Rosario. Quando entri nel castello di Roccascalegna entri in un mondo dove la storia si mescola alla leggenda. Oltre ai passaggi di mani del feudo conosciuti solo superficialmente e a qualche nota storiografica su restauri o atti notarili, tutto ciò che sappiamo sul castello è frutto della vox populi. Come quella seconda cui gli abitanti della cittadina romana di Amnium fondarono Roccascalegna intorno al 300 a.C. per sfuggire alle continue incursioni di pirati e banditi dal fiume.

Si vocifera poi che uno dei baroni De Corvis impose il culto di un corvo nero: chi rifiutava di genuflettersi al suo cospetto veniva arrestato, imprigionato e ucciso. E per questo il barone fu ribattezzato dal popolo come “Corvo de Corvis”. La storia più affascinante però resta quella della “mano di sangue” sul muro di una delle stanze. Sembra infatti che durante il consumo dello Ius Primae Noctis con la sposa di un suo suddito, questa pugnalò al cuore il barone che, dopo essersi portato la mano al petto per cercare di fermare il sangue, la appoggiò sul muro, macchiandolo per sempre. Tutti i tentativi di cancellarla furono vani finché un crollo nel 1940 si portò voi la camera dove avvenne l’omicidio.

Oggi

Il castello di Roccascalegna oggi è riaperto al pubblico e da quasi 20 anni è gestito dalla locale Proloco, a titolo esclusivamente volontario. Ripercorrendo i suoi ordini e varcano le sue mura puoi annusare il profumo della storia e dei mito ma puoi anche godere di diverse mostre temporanee e concerti. E se la sua storia ti ha affascinato, puoi anche pensare di affittarlo per celebrare qui il tuo matrimonio. Non male, vero?

Questo articolo fa parte della rubrica
Giornalista fin dalla prima volta che ho dovuto rispondere alla domanda “Cosa vuoi fare da grande”. Sulla carta, sono pubblicista dal altro…