“Abbiamo scoperto come ridurre le morti da Covid-19 in terapia intensiva”: intervista al professor Ranieri

Il nuovo studio coordinato dal Policlinico Sant’Orsola di Bologna ha dimostrato il meccanismo con cui il virus danneggia i polmoni andando a “ferire” due componenti fondamentali: gli alveoli e i vasi sanguigni. Attraverso l’analisi di due parametri legati alla coagulazione del sangue e alla capacità distensiva dei polmoni, è possibile individuare con precisione le persone ad alto rischio mortalità, fare una diagnosi precoce e quindi mettere in campo il massimo delle cure possibili.
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Kevin Ben Alì Zinati 1 Settembre 2020
* ultima modifica il 23/09/2020
Intervista al Prof. Marco Ranieri Direttore dell’Anestesia e Terapia Intensiva Polivalente del Policlinico di S. Orsola

Nel giro di poche ore è arrivato anche il plauso anche del Governo e in particolare della Sottosegretaria di Stato alla Salute Sandra Zampa. Il nuovo studio, coordinato dal Professor Marco Ranieri del Policlinico Sant’Orsola di Bologna e pubblicato sulla rivista Lancet Respiratory Medicine, è uno di quelli determinanti, fondamentali, decisivi, potremmo azzardare a giusta ragione anche salvifici. Sì, perché ha scoperto il meccanismo con cui il Coronavirus attacca i polmoni causando un elevato tasso mortalità nei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva. Gli occhi non saranno più puntati solo sulla coagulazione del sangue ma anche su alveoli e capillari polmonari. Oggi, dunque, si aprono nuove e concrete possibilità per trattare in modo più mirato i casi più gravi e ridurre il rischio di mortalità: ce l’ha spiegato lo stesso professor Ranieri.

Professore, cosa cambia oggi rispetto all’inizio della pandemia? 

Quando è cominciata la catastrofe, a fine febbraio, tra i clinici si è diffusa la percezione, supportata da dati e studi preliminari effettuati su pochi pazienti, che i malati di Covid-19 non avessero una classica forma di insufficienza respiratoria acuta. Si pensava che i loro quadri non fossero caratterizzati dalla compromissione del polmone quanto piuttosto da una compressione vascolare coagulativa. In sostanza eravamo convinti che l’infezione da Coronavirus desse un’ipercoagulabilità dei vasi sanguigni del polmone. Questo ha fatto sì che tutto ciò che conoscevamo fino a quel momento sull’insufficienza respiratoria acuta non fosse applicato ai malati Covid poiché si pensava che il loro problema non fosse polmonare ma vascolare: quindi niente ventilazione meccanica protettiva, niente Ecmo, ovvero l’ossigenazione extra-corporea, veniva invece somministrata eparina per scoagularli.

Poi è arrivato il vostro studio. 

A un certo punto abbiamo messo in discussione tutto questo organizzando uno studio più ampio e multicentrico, che ha coinvolto circa 300 pazienti e un gruppo di controllo. L’obiettivo era capire se i malati Covid erano e sono uguali a quelli colpiti da insufficienza respiratoria acuta slegata dall’infezione.

E la riposta qual è stata? 

La risposta è sì: le due insufficienze sono sovrapponibili e la prima implicazione è che tutto ciò che che sappiamo sul “non Covid” può essere applicato a chi ha il “Covid”.

Il professor Marco Ranieri, che ha coordinato lo studio bolognese. Fonte: Policlinico Sant’Orsola–Malpighi di Bologna

Poi però avete anche dimostrato che Sars-CoV-2 danneggia effettivamente il polmone. 

Tra tutti i dati raccolti, abbiamo certificato che in un gruppo di malati, circa il 25%, vi era un doppio danno polmonare. Faccio un passo indietro per spiegarmi meglio.

Prego. 

Nel polmone ci sono due tipi di cellule: quelle epiteliali, presenti nella parte interna dell’alveolo che ha il compito di prendere l’ossigeno dall’ambiente esterno, e poi le cellule endoteliali, che popolano invece i vasi sanguigni e sono incaricate di prendere l’ossigeno dall’alveolo e portarlo nel sangue per poi farlo arrivare agli organi periferici. Noi abbiamo scoperto che il virus è in grado di danneggiare uno dei due componenti polmonari o entrambi. Quando intacca sia l’epitelio che l’endotelio, e il danno è appunto doppio, il rischio di morte è di 4 volte superiore rispetto al danno singolo. Stiamo parlando di un 60% contro il 20% di un danno a un solo componente.

Quindi?

Riconoscere e identificare questo “fenotipo”, ovvero il gruppo di persone ad alto rischio mortalità, significa disegnare studi che possano verificare l’efficacia di trattamenti specifici per il Covid-19 in modo più facile. Soprattutto, però, se identifichiamo subito questo gruppo di malati che hanno 4 volte il rischio di morire più degli altri, possiamo offrire loro il massimo a livello di cure, che significa quindi agire con ventilazioni super protettive, rimozione extracorporea di CO2, dialisi polmonare e terapia con farmaci anticoagulanti. Significa, insomma, poter dimezzare i tassi di mortalità.

Ciò che serve è una diagnosi precoce: come si può fare? 

Ci sono due parametri che devono essere tenuti in considerazione. Il primo è una misura ematica, ovvero il parametro D-Dimero, che rende conto del livello di coagulazione del sangue: quando è superiore a 1500, suggerisce la presenza di un danno. L’altro parametro, che identifica il danno alveolare, è la misura della distensibilità polmonare (o compliance) che deve essere inferiore a 40. Sono parametri facili da osservare.

Il team del professor Ranieri, autore dello studio. Fonte: Policlinico Sant’Orsola–Malpighi di Bologna

Oggi, quindi, l’approccio terapeutico diventa più preciso.

Uno dei problemi di questo “errore” iniziale era legato al fatto, per esempio, che l’eparina porta con sé intrinsecamente un rischio di sanguinamento a cui si lega una probabilità di mortalità del 30-40%. Quindi somministrando eparina a chi ha un danno polmonare singolo, lo si espone a quel livello di mortalità quando invece la malattia ha un rischio del 20%: il paziente verrebbe dunque esposto a un rischio non giustificato. Se invece il danno è doppio e la mortalità è del 60% e quindi si somministra eparina, il rischio è giustificato perché il pericolo legato al farmaco è inferiore rispetto a quello legato alla malattia. Grazie il nostro studio, ora, siamo ingrato di sapere con precisione a chi somministrarla.

Professor Ranieri, dai dati dei mesi di luglio e agosto emerge che le Terapie Intensive fortunatamente sono più vuote, l’età media dei ricoverati è più bassa e il numero dei morti è calato drasticamente. Il rischio di sviluppare un doppio danno polmonare, e di andare così incontro a rischi di mortalità più alti, può dipendere dall’età degli infetti? 

L’età media dei pazienti nel nostro studio era sopra i 65 anni, oggi in terapia intensiva i pazienti hanno 50 anni mentre a marzo i ricoverati gravi erano più anziani e con molte comorbidità. Dal nostro lavoro però è emerso che avere comorbidità non è associato a un maggior rischio di sviluppare il doppio danno polmonare. Oggi il virus colpisce i giovani perché gira tra gli assembramenti di cui abbiamo sentito parlare ma una volta che qualcuno dovesse arrivare in terapia intensiva, il rischio di essere il fenotipo con doppio danno è uguale a 20 come a 90 anni. Avendo scoperto come agisce il virus a livello polmonare, oggi siamo però in grado di combatterlo in maniera più efficace.

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