Anoressia e bulimia in età adulta: i disturbi alimentari non hanno età ma possono avere una cura

Ambra ha convissuto con anoressia e bulimia da quando era piccola ma la consapevolezza di soffrire di disturbi alimentari è arrivata dopo i 30 anni. Nella sua vita ha avuto alti e bassi, ha convissuto con queste malattie finché poteva, fin quando ha potuto “gestirle” da sola. Il rischio che si cronicizzassero c’era ma, dopo anni di psicoterapia, è riuscita a riprendere in mano la sua vita.
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Evelyn Novello 15 Marzo 2024
* ultima modifica il 15/03/2024
Intervista a Ambra, ex paziente di anoressia e bulimia e dott.ssa Simona Siani, neuropsichiatra e Direttrice Sanitaria del Centro Aba (Associazione Bulimia Anoressia)

"Quando in terapia mi è stato chiesto cosa fosse per me il cibo, io l'ho descritto come un veleno di cui purtroppo non potevo fare a meno. Se volevo vivere dovevo assumerlo, ma a me faceva male". Ambra è solo una delle circa 3 milioni di persone che in Italia che soffrono di DNA (Disturbi della Nutrizione e dell'Alimentazione) di cui anoressia e bulimia occupano una fetta considerevole. Dagli ultimi dati forniti dal Ministero della Salute, queste patologie hanno conosciuto un aumento soprattutto dopo la pandemia. Nel 2022 si è registrato un incremento di quasi il 40% rispetto al 2019.

Nonostante siamo portati ad associare i DNA alle ragazze in età adolescenziale (effettivamente il tasso è più alto di incidenza si registra nella fascia 15-19 anni), sono ancora molte le persone che soffrono di questi disturbi in età adulta. Non perché la malattia non abbia dato segnali precocemente, ma perché troppo spesso ci si rende conto di avere un problema quando questo sfiora il limite dell'irrisolvibilità. Questo è il caso di Ambra, la protagonista di questa storia incredibile che ci fa toccare con mano cosa significa effettivamente avere un disturbo dell'alimentazione e quanto possa condizionare, anche in modo irreversibile, la vita. Ambra, dopo anni di terapia, ne è uscita e ci dimostra che la consapevolezza, prima di tutto, e il coraggio di chiedere aiuto poi, possono davvero fare la differenza.

Il 15 marzo del 2012, all'età di 17 anni, è morta una ragazza per bulimia nervosa. Quando ha deciso di curarsi ormai era troppo tardi. In suo ricordo, il padre ha istituito, in quella data, la Giornata del Fiocchetto Lilla, un'occasione per creare consapevolezza sui disturbi alimentari. Perché parlarne è il primo passo.

Cosa significa soffrire di DNA

"DNA sono i disturbi della nutrizione dell'alimentazione – ha confermato la dott.ssa Simona Siani, direttrice sanitario del centro Aba. –  Si tratta di qualunque forma di disturbo o di comportamento anomalo nei confronti del cibo. Il cibo è un veicolo di relazione, un veicolo di affetto che diventa veicolo di disagio. L'esordio in età adulta e un esordio è più raro e a volte, andando a indagare nella anamnesi di queste persone, si può constatare che comunque dei segnali del disagio di quel tipo è già presente in età adolescenziale".

Ambra ora ha 38 anni e da poco è guarita da quei mali di nome anoressia e bulimia che l'hanno tenuta in scacco da quando era piccola. "La mia relazione con i DNA – ci spiega – inizia molto tempo fa, probabilmente già quando ero bimba. Ho iniziato ad avere i primi episodi seri di anoressia verso i 17-18 anni e poi, più avanti, di bulimia".

Volevo modificare il mio corpo e non era mai abbastanza. Mi illudevo di avere il controllo.

Il percorso negli anni si è composto di alti e bassi, tutto dipendeva dalla volontà di controllo che Ambra provava verso il suo corpo. "Percepivo il mio corpo come qualcosa di estraneo a me – racconta. – Qualcosa che avrebbe dovuto rispondere a quello che io gli dicevo, come se fosse un animale domestico. Lo volevo modificare ma non era mai abbastanza. Anche quando raggiungevo un obiettivo che mi ero prefissata, mi dicevo che avrei potuto andare ancora oltre e me ne ponevo un altro. Quando si soffre di questo disturbo, ci sono momenti in cui si pensa di essere un po' onnipotenti, di poter controllare la propria vita, di avere tutto in mano. E invece non è affatto così, ti illudi che lo sia".

Diete estreme, abbigliamento extralarge, il tutto era finalizzato a cercare di scomparire. "Mi guardavo allo specchio in continuazione e cercavo di rimpicciolirmi – confessa Ambra – mi arrabbiavo tantissimo con me stessa perché non ci riuscivo. Mi ferivo anche fisicamente, ho iniziato a picchiarmi per punirmi. Volevo proprio vivere in un angolo, essere invisibile".

Le relazioni (tossiche)

Soffrire di un disturbo dell'alimentazione vuol dire essere completamente succube di sé stessi, delle proprie insicurezze, della necessità di porre delle regole alla propria vita, regole che con il tempo soffocano ogni aspetto. Il lavoro, l'amicizia, l'amore. "Ero terrorizzata dall'avere attenzione addosso – spiega Ambra – soprattutto un certo tipo di attenzione, quella da parte di uomini più grandi. Le relazioni che ho avuto erano molto influenzate dal mio disturbo. Anzi, non saprei dire se fossero le relazioni a influenzare il disturbo o viceversa. Ho vissuto molte relazioni malsane, decisamente tossiche. Erano relazioni di potere dove il potere non ce l'avevo io perché non mi ritenevo meritevole d'amore, di attenzioni, di cure, di tenerezza. Quindi era normale che qualcuno mi trattasse male. Sentivo di dovermi annullare per l'altro e accettavo cose che non avrei mai voluto accettare, perché la verità è che io non accettavo me stessa".

Avevo relazioni tossiche, di potere. Dove il potere non ce l'avevo io

Era proprio quando queste relazioni finivano che, per tentare di riprendere in mano la sua vita, Ambra si rinchiudeva ancor di più in un'altra relazione tossica, quella con il cibo. "Mi davo delle tabelle di marcia nel dimagrimento a cui logicamente non riuscivo a star dietro perché il corpo ha i suoi bisogni – continua. – Quindi me la prendevo con me stessa, mi davo della debole. E lì ricadevo nella bulimia. A un certo punto non riuscivo più a controllare quante volte vomitavo durante la giornata. Non riuscivo più neanche ad avere una vita sociale, perché gli amici si trovavano e uscivano a cena. Se accettavo sapevo di dover trovare una scusa per andare via presto perché avrei dovuto vomitare quello che avevo mangiato. Non che io lo volessi veramente, alcune volte mi dicevo che avrei potuto mangiare qualcosa senza espellerlo, ma poi era più forte di me, non riuscivo a sostenere il fatto di avere un corpo estraneo dentro di me".

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Un altro aspetto della vita sociale di ciascuno di noi, forse il più importante, è rappresentato della famiglia. Il nostro imprinting con la vita avviene lì, tra le mura domestiche, in cui i nostri cari diventano per noi il nostro punto di riferimento, il modello a cui rifarsi. "La famiglia è il primo nucleo d'amore che incontriamo nella vita – spiega Ambra. – Nella famiglia impariamo l'amore, io, invece, ho sempre imparato a farmi da parte. Sono cresciuta con l'idea di dover fare spazio, di non dover disturbare. Alcuni miei familiari soffrivano – e tuttora soffrono – di DNA, ma veniva considerata una cosa normale. Proiettiamo sul cibo ogni problema emotivo o sentimentale perché il cibo è un'immagine d'amore. È il primo gesto d'amore che riceviamo quando lasciamo, pensiamo al latte materno, e quando vogliamo bene a qualcuno gli prepariamo qualcosa di buono o lo portiamo fuori a mangiare". A volte quello stesso cibo, però, diventa una prigione.

"Questi sono disturbi che nascono da una sensazione di insicurezza, inadeguatezza che parte da molto indietro – conferma la dott.ssa Siani. – Nella storia di queste pazienti c'è spesso l'essere caricate di aspettative dai genitori. La malattia diventa l'unico modo che trovano per dire "io esisto". Sono ragazze perfette, bravissime a scuola. Questo fa sì che arrivino in adolescenza senza sapere chi sono, cosa vogliono e vivono una vita che non è la loro. Convivono con la malattia finché possono".

La terapia, la cura

Un disturbo non curato rischia di cronicizzarsi e diventare sempre più difficile da estirpare. Ma Ambra per molto tempo non pareva rendersene conto. "Non mi sono considerata soggetta a una patologia fino ai 31-32 anni – racconta. – Di fatto, non sono mai stata così magra e ossuta come pensavo fosse chi soffriva di un disturbo del comportamento alimentare. Ho capito di avere bisogno di aiuto solo quando mi sono resa conto di non riuscire più a controllare questo disturbo, anzi, era lui che controllava me. Non volevo più vivere, non questa vita. Mi stava veramente spegnendo e mi sono detta "o la faccio finita o ne esco fuori". Per fortuna, ho preferito la seconda opzione".

Non controllavo più questo disturbo, anzi, era lui che controllava me

È in quel momento che Ambra decide di affidarsi a una clinica specializzata nella cura dei disturbi del comportamento alimentare. Una scelta che, di fatto, le ha salvato la vita. "Lo spartiacque della mia vita è stato andare in terapia. Grazie agli specialisti della Fondazione Aba di Milano, ho scavato dentro di me e, molto gradualmente, ho portato a galla tutto quello che mi stava opprimendo". Ora Ambra è una persona diversa, nota anche i suoi lati positivi, ha più autostima e determinazione. "Ora mi reputo una persona amorevole, credo comprensiva. So fare tante cose, so parlare bene l'inglese, so cucinare bene. Curioso questo in effetti (ride, ndr). Sono una persona onesta e credo che mi si possa dare fiducia. Adesso il mio corpo rappresenta una parte di me e quindi lo ascolto. Adesso mi piaccio".

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Ambra ha fatto molti passi in avanti. Pian piano ha costruito una vita diversa che, con tutta probabilità, prima non si sarebbe mai aspettata di vivere. "Se dovessi incontrare la me stessa di 10 anni fa, mi darei un abbraccio, così come lo darei a chiunque soffre di disturbi alimentari. Le direi di non preoccuparsi perché tutto si può risolvere" conclude.

Fonte | Ministero della Salute

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