Ansia, depressione, autolesionismo, paura: con il virus emerge la pandemia nascosta dei giovani

Sars-CoV-2 ha colpito duro anche i ragazzi: il lockdown, il prolungato isolamento dalla vita sociale, lo stato di continua emergenza hanno accentuato i disturbi neuropsichiatrici, gli istinti suicidi, le problematiche del comportamento alimentare e l’autolesionismo in una fascia di popolazione già in sofferenza. Con la sua storia, una giovane romana di 15 anni ci ha portati dentro questa pandemia sommersa.
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Kevin Ben Alì Zinati 1 Aprile 2022
* ultima modifica il 01/04/2022
In collaborazione con Dott.ssa Sara Uccella, specialista in Neuropsichiatria infantile dell'Ospedale Pediatrico Istituto Gaslini di Genova ; Dott.ssa Maria Pontillo, psicologa e psicoterapeuta dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma

Nel lockdown di Francesca c’erano i film sul divano con papà Marco e mamma Daniela. Niente appuntamento serale con gli Avengers, meglio i cartoni animati come Encanto. O le conferenze stampa della Protezione Civile, con il bollettino quotidiano della «guerra» al virus.

In quelle settimane isolati in casa qualche volta facevano a turno per cucinare: gli altri però, perché Francesca non ha mai avuto un feeling particolare con i fornelli.

Avrebbe voluto seguire una delle sue lezioni di karate, lo sport «rubato» al fratello Roberto e ormai appicciato all’anima perché “ti insegna a difendere e non ad attaccare”, ma le palestre erano sbarrate, inavvicinabili.

Per fortuna a riequilibrare un po’ la sua bilancia ci ha pensato il disegno. Con il tablet e la penna digitale Francesca ha dato vita a personaggi fantasy e ha capito cosa vorrebbe fare da grande.

A un certo punto tutto questo però è diventato troppo, o troppo poco.

Mentre le ondate di contagi si susseguivano e il virus cambiava continuamente volto, la paura ha lasciato il posto alla rabbia, l’inquietudine alla frustrazione di chi vive circondato da muri: visibili, quelli di casa, e invisibili, eretti dalle restrizioni per arginare il virus. A poco a poco il vaso si è riempito finché non è diventato stracolmo e l’acqua è traboccata.

Così si è sentita Francesca durante questi lunghi mesi di pandemia. Così si è sentita la giovane ragazza romana di 15 anni (il cui nome che ti riporto qui è inventato, così come quello dei suoi famigliari, mentre la sua storia è verissima) quando ha visto la sua pelle lacerarsi e sanguinare sotto la pressione delle sue stesse unghie.

Una pandemia «indiretta» e nascosta 

Ieri è stato l'ultimo giorno dello Stato di Emergenza, introdotto dal Governo italiano il 31 gennaio 2020 per affrontare il dilagare del virus, mentre dal 1 maggio diremo addio al Green pass: step decisi, e decisivi, verso l’uscita dal tunnel.

Eppure c’è un riflesso della pandemia che ancora preoccupa. Quello che la dottoressa Elena Bozzola, Segretario Nazionale della Società Italiana di Pediatria ci aveva definito come la «pandemia indiretta». Riassunta in un dato: un +84% di accessi ai pronto soccorso pediatrici per disturbi neuropsichiatrici tra fine 2021 e inizio 2022.

Il virus ha messo alla prova la resilienza e la capacità di adattamento di tutti, in particolare degli adolescenti. E per molti di loro, alle prese con la scoperta delle prime fragilità e insicurezze, la pandemia è stato il colpo più duro.

Forse non ci ne rendiamo ancora conto di questo riflesso perché non trova immediata rappresentazione nelle comunicazioni del Ministero della Salute, il nostro stetoscopio appoggiato sul cuore dell’Italia.

Oppure non ne abbiamo ancora piena coscienza perché i suoi contorni appaiono sfocati e il suo impatto è meno tangibile.

Come si misura la paura di uscire di casa, di contagiarsi e portare il virus a genitori e nonni? Come si quantifica lo spettro di altri lockdown, il terrore di svegliarsi in un mondo nuovo e diverso, la diffidenza verso gli altri e allo stesso tempo il timore di non poter rivedere le facce degli amici al di là delle mascherine? Come si calcola quella paura che nei primi mesi di pandemia è stata reale e concreta: la paura di morire?

Secondo i Centers for Disease Control and Prevention statunitensi il problema della cura e prevenzione della salute mentale dei ragazzi è di natura strutturale. In una nota del 25 febbraio 2022 avevano rimarcato che non esiste un sistema di sorveglianza unico e completo per la salute mentale dei bambini negli Stati Uniti”.

E una falla nella diga (globale e non solo americana, purtroppo) è difficile da arginare se non si sa dove mettere il dito e se il mondo è alle prese con una crisi sanitaria.

In Italia c'è stato un +84% di accessi ai pronto soccorso pediatrici per disturbi neuropsichiatrici tra fine 2021 e inizio 2022

Sars-CoV-2 si è abbattuto in modo rapido e capillare sulla società e il suo effetto sulla bolla di ciascuno di noi è stato più dirompente lì dove il vetro era più sottile.

Per i ragazzi la libertà azzoppata dalle restrizioni si è tramutata in ricoveri per disturbi d’ansia, l’esclusione dalla consueta interazione sociale ha innescato problematiche legate all’umore e alla suicidalità o disturbi del comportamento alimentare. Il prolungato stato di allerta ha riacceso in moltissimi di loro il fascino sinistramente accogliente delle droghe.

A cavallo tra le prime ondate di contagi, Francesca invece ha iniziato a compiere gesti di autolesionismo.

In casa

La casa di Roma, nella quartiere di Centocelle, è stata l'unico mondo di Francesca e della sua famiglia tra marzo e maggio 2020.

A Francesca sono sempre piaciute le feste con i compagni di scuola o le uscite nei pomeriggi d’estate, ma con i contorni giusti: la passeggiata per le vie della Capitale o il film delle nove al Cinema Broadway.

Poi è arrivato il Coronavirus che ha azzerato completamente i rapporti sociali, appiattendo le nostre vite alla tridimensionalità delle mura di casa.

Come tutti, anche Francesca all’inizio non ha compreso fino in fondo la situazione nuova e anomala ma anzi, ne ha quasi subìto il fascino. “Quando sei bloccato come tutti gli altri non ti senti completamente solo. Hai la sensazione di essere più protetto, guardi gli altri e pensi che siamo tutti sulla stessa barca ci ha confessato.

Alla lunga però il lockdown l’ha messa di fronte alla non socializzazione prolungata e in poco tempo la solitudine forzata ha tolto spazio a tutti i pensieri (pro)positivi che di solito fioriscono con la primavera.

Le giornate scandite dal numero di morti e le tante ore trascorse solamente in compagnia di se stessa hanno fatto il resto, portando dentro casa quell’ansia che per settimane Francesca aveva visto dalla finestra.

Quando sei bloccato come tutti gli altri non ti senti completamente solo

Francesca, 15 anni

Con il 2021 poi sono scoccate le vaccinazioni di massa e l’introduzione di strumenti come il Green pass o i tamponi antigenici «fai da te», grazie ai quali ci siamo riconquistati un po’ normalità.

Molti di noi, seppur nella drammaticità di un virus ancora sconosciuto e pericoloso, hanno comunque iniziato a intravedere l’inizio della fine dell’urgenza. Gli amici di Francesca, per esempio, riuscivano ad abbassare un po’ di più la guardia e a non indossare la mascherina così rigidamente anche all’aperto distanziati da tutti, altri arrivavano perfino a non temere più il rischio di contagio.

Per Francesca è stato l’opposto. La paura e l’angoscia dei primi mesi hanno continuato a restarle appiccicate. “Con tutte quelle vittime sentivo che il pericolo era ancora molto forte e che era ancora necessario mantenere tutte le misure di sicurezza: le mascherine, il distanziamento, l’Amuchina sempre in tasca. La vita normale mi sembrava ormai persa.

Francesca non se l’è più sentita di uscire e ha rinunciato al karate, al cinema, alle passeggiate. Per sfuggire all’onda di panico si è rifugiata nella sua stanza e per difendersi dalla sofferenza ha cominciato a farsi del male da sola.

“Avevo già sperimentato quelle azioni tempo prima – ci ha raccontato – Sapevo quindi cosa facevo, per quanto forse in realtà non lo sapessi. Ero arrabbiata con me stessa per il modo in cui non riuscivo a gestirmi. Infliggermi dolore era il modo per sfogare la rabbia, la paura e la frustrazione del non riuscire a uscire mai da un periodo così delicato”.

L’autolesionismo, per Francesca, era diventata l’unica possibilità di rivalsa verso la pandemia.

Che forma ha questa pandemia?

Che il Covid-19 non sia stata (anche) la pandemia dei ragazzi è un falso mito. Per lunghi tratti i giovani sono stati la popolazione meno colpita dal virus, quasi fossero «naturalmente» immuni ma anche anche loro, a un certo punto, hanno cominciato ad ammalarsi di Covid-19, qualche volta in maniera severa: negli Stati Uniti, per esempio, si sarebbero contati circa 350 decessi tra gli under12.

Se ti ricordi, poi, dal punto di vista dell’emergenzialità clinica i bambini sono stati il terreno di conquista della cosiddetta Multisystem inflammatory syndrome in children, una nuova patologia sorta proprio con il virus e di cui ti avevo già raccontato l'identikit con le parole del professor Angelo Ravelli e del professor Gian Luigi Marseglia.

Anche i più piccoli, insomma, sono stati (e rimangono) esposti alle più severe conseguenze del virus, specialmente quelle che coinvolgono la sfera neuropsichiatrica.

Diversi paesi europei hanno osservato come i riflessi della normale vita sociale interrotta abbiano assunto la forma di un aumento di fenomeni di autolesionismo, come per Francesca, ma anche di sintomi da disturbo da stress post-traumatico, ansia, depressione e disturbi alimentari.

In Italia, per scempio, l’Ospedale Pediatrico Istituto Giannina Gaslini di Genova ha indagato lo stato psicologico dei ragazzi a tre settimane di distanza dal lockdown di marzo-aprile 2020 attraverso un questionario online, cui hanno aderito 6800 persone, 3245 delle quali con figli adolescenti a carico.

Infliggermi dolore era il modo per sfogare la rabbia e la paura del non riuscire a uscire da un periodo così delicato

Francesca, 15 anni

“Lo scoppio della pandemia è equiparabile a un trauma – ha spiegato la dottoressa Sara Uccella, specialista in Neuropsichiatria infantile del Gaslini e autrice dello studio – C’è stata una preoccupazione immensa perché si aveva paura di essere in pericolo o che lo fossero le persone attorno a noi. L’aumento dei livelli di allerta è una risposta biologica di fronte a un evento che minaccia la vita”. 

Normalmente questi eventi si affrontano insieme alle persone care, dalle quali si ricava conforto. Il Covid invece ci ha tagliati fuori dalla socialità. “La condivisione è mancata anche nei momenti più drammatici, come l’impossibilità di espletare riti di commiato quali i funerali ”.

Inizialmente il senso di isolamento ha pesato soprattutto su quelle persone che vivevano da sole o i genitori che hanno dovuto gestirsi da soli tra il lavoro in smart working e i figli, soprattutto se piccoli.

I ragazzi, invece, secondo la dottoressa Uccella, hanno saputo gestire meglio i primi mesi di lockdown. Attraverso videochiamate online e altri strumenti digitali sono riusciti a sopperire alla mancanza di una routine sociale e scolastica e a trovare il modo di non sentirsi soli.

Quando poi la normalità ha provato a ripartire, le frequenti restrizioni hanno continuato a minacciare le libertà, i contatti extra-familiari sono rimasti limitati e «a rischio», la scuola ha visto mesi di didattica a distanza e in televisione dilagava la retorica della «guerra contro il virus»: pensata per unirci in un immaginario collettivo e fare fronte comune nella crisi, molte volte il parlare di alleati e nemici, strategie e prime linee ha finito con l’innescare, invece, ansia e comportamenti più divisivi e individualisti.

A subire maggiormente le conseguenze di questa «guerra-non-guerra» è stato chi la vita se la stavano costruendo. “In quel momento gli adolescenti vivono per la scuola e le amicizie, le esperienze fuori dalla famiglia. In quest'età i ragazzi hanno solo la voglia di scoprire il mondo”. Il bisogno di vedersi, parlarsi, toccarsi e di condividere era troppo forte.

I dati raccolti dalla dottoressa Uccella hanno infatti mostrato l’effetto di questa pandemia. Il 65% dei bambini sotto i 6 anni e il 71% di quelli più grandi avrebbero cominciato a soffrire di problemi comportamentali.

Negli adolescenti le cose non sarebbero tanto diverse. L’angoscia e il disagio hanno preso la forma di una perenne sensazione di mancanza d’aria prendendo di mira il momento dove ciascuno di noi è più vulnerabile, il sonno, con difficoltà di addormentamento e risveglio.

A un anno e mezzo di distanza lo scenario non sembra purtroppo molto diverso. “Siamo ancora sommersi di accessi di adolescenti con episodi di autolesionismo, istinti suicidi e disturbi alimentari come l’anoressia. Dal 2020 in poi c’è stata una progressione di accessi per disagio psicologico grave e ricovero con un netto abbassamento dell’età media dei soggetti verso la fascia pre adolescenziale e adolescenziale”. 

L’onda lunga della pandemia indiretta, ha concluso la dottoressa Uccella, è in incremento e sebbene oggi siamo arrivati a un plateau, la curva appare nettamente più alta rispetto a due anni fa: “Il Coronavirus ha fatto da facilitatore a situazioni purtroppo presenti già prima. Spero che questi due anni possano innescare il potenziamento e la creazione di nuove reti di prevenzione”. 

Chiedere aiuto

Smaltita la relativa calma dell’estate, a novembre 2021 la pandemia è tornata a bussare alle porte delle nostre case e dei nostri ospedali.

L’autunno-inverno è stato il momento della quarta ondata, fatta di 10 mila casi giornalieri e trainata a dalla contagiosissima variante Omicron, del via libera alle terze dosi di vaccino e della scuola a singhiozzo tra lezioni in presenza e orari scaglionati.

Siamo ancora sommersi di adolescenti con episodi di istinti suicidi e disturbi alimentari

Dott.ssa Sara Uccella, neuropsichiatra infantile Gaslini di Genova

Se per molti è stato comunque il segnale di una vita sostanzialmente in ripresa nella maggior parte delle sue sfumature, per Francesca novembre 2021 è stato il momento della richiesta d’aiuto. “Sapevo che non sarei più riuscita a gestire tutte quelle emozioni da sola.

Autonomamente si è fatta un’idea di cosa e come avrebbe potuto fare e poi si è rivolta a mamma Daniela e papà Marco: “Ci ho girato un po’ attorno perché non volevo chiedere apertamente di poter vedere uno psicologo. Forse avevo un po’ di vergogna ma i miei genitori hanno capito subito. Non lo avrei fatto se non avessi capito che era necessario”.

Francesca e i suoi genitori si sono così rivolti all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e insieme sono arrivati nello studio dalla dottoressa Maria Pontillo, psicologa che da tempo si occupa di seguire ragazzi e adolescenti nei loro percorsi psicoterapeutici.

Chiamare lo psicologo? Non lo avrei fatto se non avessi capito che era necessario

Francesca, 15 anni

Fin dalle prime sedute del loro percorso, la dottoressa Pontillo si è resa conto che Francesca era diversa dai tanti altri casi di adolescenti colpiti dalla pandemia. “Prima i ragazzi erano trascinati dai genitori, ora invece sono loro stessi a chiedere aiuto. Il tanto tempo in casa da soli ha aumentato le possibilità di introspezione. Gli adolescenti si sono guardati dentro. Francesca si era messa in moto da sola, come se in lei l’isolamento avesse ribaltato uno standard comportamentale rimasto invariato per molto tempo.

Un vaso già aperto 

L’aumento del numero di visite e ricoveri nei reparti pediatrici in pandemia, purtroppo, non deve sorprenderti.

Forse non te ne sei mai reso conto ma quello degli adolescenti è un mondo fragilissimo e brulicante di disagio, episodi di autolesionismo e di ragazzi con pensieri di morte e suicidio.

Certo i mesi dell’emergenza hanno tenuto i genitori maggiormente a casa rendendoli più attenti alle problematiche infantili e adolescenziali – condizione che ha contribuito, per esempio, alla riduzione dei tentati suicidi effettivi nella prima parte del 2020 – ma il drastico cambiamento di routine, l’assenza di una vita sociale insieme alla percezione di un continuo stato di emergenza comunicato da telegiornali e social network hanno soffiato forte su micce che in molti casi erano già innescate.

“Consideriamo che già prima della pandemia una percentuale tra il 10 e 16% di bambini a adolescenti, secondo l’Oms, soffriva di un disturbo psichiatrico. Addirittura nel 50% dei casi, il disturbo inizierebbe secondo Unicef,  entro i 14 anni, quindi molto precocemente ha spiegato la dottoressa Pontillo.

Nel nostro contesto nazionale i dati dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, tra i maggiori centri pediatrici italiani insieme al Gaslini di Genova e al San Matteo di Pavia, testimoniano che “con il Covid abbiamo avuto un aumento netto dei ricoveri per disturbi psichiatrici infantili ma i numeri prima non erano tanto inferiori: purtroppo quello della salute mentale dei giovani è un problema esistente e in crescita”.

Se con la pandemia le diagnosi di depressione e le richieste di ricovero per condizioni psichiatriche gravi come autolesionismo e tentativi di suicidio sono arrivate al 70% del totale, già nella fase pre-Covid le percentuali si aggiravano attorno al 49%. “Il virus ha fatto da detonatore ad un disagio sommerso”. 

Che quello di Francesca fosse un vaso già parzialmente scoperchiato ce l’ha confermato anche il papà, Marco. Sua figlia è sempre stata apprensiva e fin troppo diligente ed è convinto che dentro di leic’erano già sicuramente altri problemi e disagi che non aveva mai però avuto modo di esternare”.

Il virus ha fatto da detonatore ad un disagio sommerso

Dott.ssa Maria Pontillo, psicologa dell'Ospedale Bambino Gesù Roma

Il lockdown ha esasperato le sue difficoltà di socializzazione e ha anche minato la fiducia in se stessa, acuendo invece la paura del giudizio altrui. “Le riaperture e le chiusure, le limitazioni e i continui divieti hanno poi tolto a Francesca la speranza del futuro. Le hanno dato la sensazione che la vita pre-pandemia fosse ormai finita per sempre e che quella sarebbe stata la nuova realtà a cui si sarebbe dovuta abituare”. 

Più volte, durante la nostra chiacchierata telefonica, Marco ha utilizzato un’espressione che è rimasta impressa nella testa come luce sulla carta fotografica: avremmo dovuto”. Avremmo dovuto capire che cosa stava succedendo ad Francesca. Avremmo dovuto accorgerci che stava male. Avremmo dovuto ascoltare nostra figlia.

Nelle sue parole si avvertiva un senso di colpa. “C’è anche un’aggravante – ha aggiunto – perché Francesca ci ha sempre avuti attorno. Quando è nato l’altro figlio, abbiamo fatto una scelta radicale: mia moglie Daniela ha deciso di interrompere l’attività lavorativa per seguire la famiglia e la casa. Quindi forse avremmo dovuto vedere il disagio che stava provando Francesca e invece non ci siamo accorti di nulla”. 

Questo però non li ha abbattuti. Marco e Daniela oggi sono parte attiva nel percorso di Francesca. La coinvolgono molto di più nelle attività famigliari, stanno più attenti al suo umore e alla sua voglia di isolarsi. “Insieme cerchiamo di darle sicurezza e di infonderle un atteggiamento più positivo e meno attaccato al giudizio altrui o ai risultati scolastici”. 

Il loro ruolo è fondamentale ma non totalizzante. I genitori non hanno rinunciato a parlare con Francesca, hanno solo scelto di delimitare il loro raggio d’azione evitando di chiedere dell’autolesionismo della figlia. “Non ne abbiamo quasi mai parlato direttamente, ce l’ha riferito la dottoressa trattandosi di una minorenne. È stata una confidenza fatta a lei e noi la vogliamo rispettare”.

Con tanto tempo in casa da soli gli adolescenti si sono guardati dentro

Dott.ssa Maria Pontillo, psicologa Ospedale Bambino Gesù di Roma

Mettendoti nei panni di una mamma o di un papà, anche tu probabilmente avresti chiesto. Di fronte a un’emergenza così grave anche tu avresti voluto sapere tutto: cosa sta succedendo a mia figlia, come si infligge del male, quante volte, su quale parte del corpo? Anche tu avresti voluto oltrepassare i cancelli del mondo di un’adolescente pretendendo di tenerne sotto controllo lo stato emotivo.

Avremmo dovuto vedere il disagio che stava provando nostra figlia e invece non ci siamo accorti di nulla

Marco, papà di Francesca

Marco e Daniela invece non l’hanno fatto. Sapevano che l’invasione di quello spazio avrebbe aggiunto un senso di frustrazione alle negatività già accese dalla pandemia e così si sono affidati alla forma più alta e sacra di fiducia e l’hanno riposta sulla figlia. “Abbiamo voluto rispettare il suo modo di essere, la sua riservatezza – ha raccontato Marco – Non significa lasciare soli i propri figli ma aiutarli a crescere. I miei genitori sono state presenze costanti ma discrete e così ho pensato di fare a mia volta: restare vigile lasciando però ai miei figli la possibilità di autodeterminarsi”. 

Francesca ha 15 anni ma è “già grande”. Nella gestione del suo autolesionismo si è dimostrata per quello che è: una ragazza del liceo con la testa e l’animo di una donna consapevole di possedere delle debolezze e di cosa serve per rinforzarle.

Una condizione che per la dottoressa Pontillo si riassume con un termine caro al maestro della psicanalisi Massimo Ammaniti: “Francesca vive nella «adultescenza». Gli adolescenti di oggi, per una serie di motivi devono sviluppare risorse superiori a quelle che sono tipiche dell’età, Francesca ne è un esempio: ha un forte senso di responsabilizzazione e ha sviluppato presto la capacità di guardarsi dentro”.  

Fuori

Francesca oggi è ancora «nel percorso», come direbbe qualcuno. Dopo una prima fase di valutazione durata circa tre mesi, lei e la dottoressa Pontillo hanno deciso di proseguire il lavoro di psicoterapia insieme e una volta alla settimana si trovano sedute una di fronte all’altra nel suo studio all’Ospedale Bambino Gesù di Roma.

Tra la ragazza e la psicologa si è creato un rapporto di fiducia reciproca, quella che in materia viene definito una «comunione terapeutica» e che rappresenta uno dei primi passi necessari perché il percorso proceda nella direzione giusta.

Il secondo passo comprende invece il riconoscimento e la conoscenza della propria condizione. “È fondamentale condividere in modo trasparente e chiaro la natura del disagio con la persona che si ha di fronte – ha spiegato la dottoressa Maria Pontillo – I ragazzi spesso arrivano da noi dopo aver letto qualunque cosa su Google ed essersi costruiti una serie di fantasie e rappresentazioni spesso molto distorte dalla realtà. Qui invece si inizia a parlarne per arrivare a definire cosa un adolescente ha e cosa invece non ha”. 

Insieme alla figura dello psicologo, insomma, i ragazzi delineano in maniera precisa i contorni della propria condizione, la circoscrivono entro i suoi corretti limiti definendola con le giuste parole e i giusti nomi. “Senza cercare di dare un’etichetta per l’adolescente. L’esigenza, piuttosto, è aiutare l’adolescente a comprendere, gestire e accettare il suo stesso funzionamento mentale ed emotivo.

Spero che questi due anni possano innescare il potenziamento e la creazione di nuove reti di prevenzione

Dott.ssa Sara Uccella, neuropsichiatra infantile Gaslini di Genova

Francesca ha fatto anche questo. Ha dato ascolto ai suoi lati più fragili e si è aperta alla possibilità di lavorare per stare meglio. Da quando ha iniziato, ha già fatto più di qualche chilometro del suo percorso. “Oggi possiamo dirlo, c’è una bella notizia: Francesca non compie più gesti di autolesionismo e non si infligge più graffi sul corpo” ci ha confidato, con emozione, la dottoressa Pontillo.

Appena se la sentirà, Francesca sa già cosa farà. Tornerà dagli amici e al cinema e, appena avrà la possibilità di viaggiare da sola, ci ha raccontato che sa già anche dove andrà: New York mi ispira perché è una città che non dorme mai con tantissima gente in ogni angolo ma se dovessi scegliere una meta unica andrei a Tokyo. È bellissima da ogni punto di vista, le persone sembrano rispettose, le strade pulite e credo abbia molto opportunità per chi vuole fare arte”.

Appena starà meglio, Francesca riprenderà in mano quella parte della sua vita che ha messo in pausa.

Dopo la storia di Francesca, i numeri e le riflessioni della dottoressa Uccella e della dottoressa Pontillo su quella che ormai abbiamo definito la pandemia indiretta, sono tornate alla mente le parole di Paolo Giordano.

Perché nel suo breve racconto intitolato «Nel Contagio», lo scrittore ammetteva: «Non ho paura di ammalarmi. Di cosa allora? Di tutto quello che il contagio può cambiare. Di scoprire che l'impalcatura della civiltà che conosco è un castello di carte. Ho paura dell’azzeramento, ma anche del suo contrario: che la paura passi invano, senza lasciarsi dietro un cambiamento».

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