Aritmie e fibrillazione atriale: che cosa sai sui grandi avversari della salute del tuo cuore?

Prendersi cura del proprio cuore significa seguire uno stile di vita sano, fare attività regolarmente e non sottovalutare i controlli periodici. Ma vuol dire anche conoscere bene il mare di pericoli che ne minacciano la salute.
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Intervista alla Dott.ssa Elena Lucca Responsabile della sezione di elettrofisiologia clinica di Humanitas Gavazzeni di Bergamo

Quando in gioco c’è la salute, e in particolare la tua, il pericolo maggiore non è tanto quello più grande e spaventoso: chi più di tutti potrebbe giocarti un brutto scherzo semmai è il rischio sottovalutato. Se poi in ballo c’è il cuore, questa regola vale ancora di più.

Muscolo involontario che nella nostra vita arriverà a compiere anche più di 3 miliardi di battiti, il cuore è il motore che dà vita ed energia alla nostra macchina-corpo e come tale deve essere tutelato.

Trascurarlo significa non ascoltare cosa raccontano le statistiche, secondo cui le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte in tutto il mondo.

Vuol dire non fare troppa attenzione ai controlli regolari della pressione o all’importanza di un’attività fisica continua. Equivale insomma a ignorare il fatto che lo stile di vita rientra tra quei fattori di rischio “unici” sui quali abbiamo davvero il potere di intervenire.

Prendersi cura del cuore, invece, significa conoscere bene chi e cosa mette sotto scacco il tuo cuore. Ecco perché insieme alla dottoressa Elena Lucca, responsabile della sezione di elettrofisiologia clinica di Humanitas Gavazzeni di Bergamo, abbiamo setacciato il mare di pericoli che minacciano la salute del tuo cuore. Con una particolare attenzione a due di questi: le aritmie e la fibrillazione atriale.

Dottoressa Lucca, quali sono i maggiori rischi per la salute del nostro cuore?

I principali fattori di rischio cardiovascolare sono l’ipertensione arteriosa e le dislipidemie poi il fumo, l’alcol, lo stress, il diabete e la familiarità, che rappresenta l’unico fattore su cui non si può intervenire.

Che cosa si intende per ipertensione arteriosa?

Si verifica quando i valori pressori sono più alti rispetto ai valori considerati normali, che nella maggior parte delle persone sono 135-85 mmHg. L’ipertensione arteriosa, a sua volta, è uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di cardiopatie ischemiche e di aritmie. Si tratta di una patologia subdola perché spesso non dà sintomi se non quando il danno è ormai già fatto e sono già presenti alcune sue conseguenze come l’ipertrofia o danni renali con rialzo della creatinina.

La dottoressa Elena Lucca, responsabile della sezione di elettrofisiologia clinica di Humanitas Gavazzeni di Bergamo

Come si può riconoscere e come fare per prevenirla? 

I sintomi da cui riconoscere l’ipertensione arteriosa sono la cefalea, il ronzio in testa oppure il dolore al torace. Il modo per prevenirla è stare molto attenti alla dieta, quindi seguire un’alimentazione povera di cibi particolarmente salati, formaggi stagionati o salumi. È importante limitare l’utilizzo del dado, quando si consumano cibi in scatola è bene togliere tutto il liquido di conservazione che è assai salato e anche limitare l’uso delle spezie. È molto d’aiuto anche l’attività fisica.

Ogni quanto andrebbero fatti i controlli? 

Se si sa di avere casi di ipertensione arteriosa in famiglia è bene effettuare un controllo dal medico o in farmacia una o due volte alla settimana. Si possono anche fare in casa, stando però attenti a non farlo diventare un controllo spasmodico 3-4 volte al giorno che è solo controproducente. In condizioni normali invece un controllo al mese è sufficiente.

E le dislipidemie invece cosa sono?

Si tratta di condizioni in cui nel sangue ci sono valori elevati dei lipidi circolanti, quindi dei trigliceridi, e in questo caso si parla di ipertrigliceridemia, e del colesterolo, la cosiddetta ipercolesterolemia. Quest’ultima patologia può avere un’origine familiare ma può anche essere acquisita in base al tipo di dieta seguita. In questo caso non è importante tenere a bada l’assunzione di sale quanto quello di lipidi.

Uno o più fattori di rischio possono dare il là a diverse patologie cardiache e tra queste le più insidiose sono appunto le aritmie. Ce le spieghi più nel dettaglio.

Le aritmie sono pure alterazioni del ritmo cardiaco che portano il cuore a battere troppo lentamente, la cosiddetta bradicardia, o troppo rapidamente e qui parliamo di tachicardia. La bradicardia si verifica quando la frequenza del cuore è inferiore ai 60 battiti al minuto mentre quando va oltre i 100 si parla di tachicardia. Superare queste soglie però non sempre sfocia in una patologia.

In che senso?

La bradicardia, per esempio, più raramente porta un paziente all’attenzione del cardiologo perché  può essere facilmente influenzata dall’attività fisica di ciascuno di noi. Uno sportivo potrebbe avere una frequenza intorno ai 45-50 battiti al minuto ma si tratterebbe di una condizione parafisiologica legata alla sua attività. Altro discorso sono le bradicardie patologiche, in cui la propagazione del flusso elettrico già debole a un certo punto si ferma.

Le tachicardie invece sono più pericolose.

Tutte le forme di tachicardia sono rischiose, in particolare quelle ventricolari. Si possono verificare anche in un cuore normale, soprattutto in presenza delle cosiddette cardiopatie aritmogene, malattie genetiche a carico dei canali ionici, quelle particelle che determinano l’elettricità nella membrana del cuore. In un cuore con anomalie strutturali è più probabile che si verifichino tachicardie ventricolari rapide che possono portare anche all’arresto cardiaco. Esistono anche tachicardie ad origine non ventricolare, generalmente più tollerate.

Cosa può succedere in questi casi? 

Possono diventare fibrillazioni atriali. Significa che il battito è molto rapido e molto disorganizzato nella parte atriale. In sostanza succede che l’atrio si attiva elettricamente in modo caotico, a frequenze altissime con anche 300 battiti al minuto e poi un battito ogni un tot passa attraverso il nodo atrioventricolare attivando il cuore. In caso di fibrillazione atriale si può arrivare a frequenze anche sopra i 150 battiti al minuto a riposo in modo irregolare.

In che modo diventano pericolose?

Se la fibrillazione atriale dura per un po’ di tempo si può sviluppare uno scompenso, se invece l’aritmia dura più di 24-48 ore, nella parte di cuore che va più lenta si possono formare dei coaguli di sangue che potrebbero causare ictus.

Come si interviene in caso di fibrillazione atriale?

Un primo approccio è quello farmacologico, con una terapia antiaritmica abbinata a una anticoagulante, impostata sulla base del cosiddetto punteggio CHA2DS2 VASC che tiene conto di tutti i fattori di rischio che abbiamo detto all’inizio. Il secondo metodo è invasivo e si divide in due tipi di interventi: la cardioversione o l’ablazione. La cardioversione interrompe l’aritmia in corso ma non fa nulla sulla prevenzione di ulteriori episodi. Si può fare in acuto se si è sicuri che l’aritmia sia insorta nelle 24-48 ore precedenti perché non c’è rischio di coagulo, quando la durata dell’aritmia è un po’ più lunga ma il paziente non è scoagulato oppure si può programmare dopo almeno un mese di terapia anticoagulante.

E l’ablazione?

Nella maggior parte dei cuori l’anomalia elettrica dipende da un’attivazione di quattro vene polmonari che portano un impulso elettrico anomalo nell’atrio sinistro del cuore determinando dunque la fibrillazione atriale. Con l’ablazione si crea un isolamento elettrico tra queste due parti in modo che se anche le vene polmonari dovessero generare un impulso anomalo questo non verrebbe più trasmesso all’atrio. L’ablazione crea dunque quella che viene chiamata “lesione” sfruttando le alte temperature, quindi con la radiofrequenza, oppure con il freddo, quindi crioenergia. L’intervento si esegue introducendo un catetere nella vena femorale e portandolo fino alla parte destra del cuore. A questo punto per portarlo nella parte sinistra si può sfruttare un foro presente tra i due atri oppure si utilizza la cosiddetta puntura transettale.

Chiudiamo con uno dei fattori determinanti in termini di prevenzione che ha citato all’inizio: lo sport. 

È molto importante per la salute del nostro cuore. L’attività aerobica è fondamentale e va fatta in modo regolare, 2-3 volte alla settimana, senza improvvisarsi grandi sportivi ma seguendo invece un approccio graduale. L’ideale è lo sport cardiovascolare ma qualunque attività fisica può essere adeguata e va praticata con piacere. Ricordiamoci poi che un unico sport per tutta la vita non è sempre protettivo. Il fisico e il cuore nel tempo cambiano e quindi ciò che andava bene a 20 anni non è detto faccia bene anche a 60. L’importante è trovare per ogni età uno sport che piace e che va bene per il fisico.

Spesso si sente parlare del famoso “cuore d’atleta”: che cosa si intende dal punto di vista medico?

Il cuore d’atleta è un cuore che si è modificato in conseguenza dello sport che si è fatto. Alcune modifiche sono temporanee mentre altre, quando subentrano, per tantissimi, sono sono un po’ meno reversibili, come l’ipertrofia, ovvero l’ispessimento del muscolo cardiaco in conseguenza all’esercizio. Tuttavia è labile il confine tra il cuore d’atleta fisiologico e quello che invece diventa patologia. La bradicardia, come abbiamo detto prima, può essere la conseguenza dell’allenamento ma se poi, una volta smessa l’attività, la propagazione dell’impulso elettrico rallenta a tal punto che un solo impulso ogni due raggiunge tutto il cuore allora diventa un problema.

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Giornalista fin dalla prima volta che ho dovuto rispondere alla domanda “Cosa vuoi fare da grande”. Sulla carta, sono pubblicista dal altro…