
È di oggi la notizia riportata sul Corriere.it di come, in seguito a un colpo di stato in Myanmar, il capo di fatto del governo e leader del partito Lega Nazionale per la Democrazia, Aung San Suu Kyi è stata nuovamente arrestata.
Icona della democrazia e simbolo a livello mondiale di ciò che significa resistere all’oppressione in modo pacifico, Aung San Suu Kyi è stata anche insignita del Premio Nobel per la pace, nel 1991, ma oggi, la sua figura emblematica sembra riempirsi di luci e ombre, in seguito al suo discutibile atteggiamento nei confronti delle minoranze dei Rohingya.
Figlia di Khin Kyi, ambasciatrice birmana in India, e del generale Aung San, l’uomo che nel 1947 negoziò l’indipendenza della Birmania dal Regno Unito e lo stesso anno venne ucciso, Aung San Suu Kyi si è laureata in Filosofia, Scienze Politiche ed Economiche a Oxford, dove ha conosciuto il futuro marito da cui ha avuto i due figli, Alexander e Kim.
Rientrata in Myanmar nel 1988, The Lady inizia a organizzare delle manifestazioni in tutto il Paese per avere elezioni libere e riforme democratiche ispirandosi alle proteste non violente di esponenti pacifisti come Mahatma Gandhi e Martin Luther King. In quel momento, infatti, in Myanmar vige la dittatura, il risentimento popolare è elevatissimo e gli studenti di Rangoon, i monaci di Mandalay e gli operai sono in protesta contro la politica monetaria e il debito pubblico (non a caso, dal 1971 la Birmania è già stata inserita dall’Onu nel gruppo dei paesi meno sviluppati).
In questa occasione, Aung San Suu Kyi parla per la prima volta di democrazia, “l’unica ideologia coerente con la libertà, che promuove e rafforza la pace”, ma non prende troppo le distanze dall’esercito birmano. Ammette di sentirsi molto legata alle forze armate, suo padre, d’altronde, era un generale, e questo aspetto forse spiega le recenti posizioni prese nei confronti delle discriminazioni a danno delle minoranze musulmane dei Rohingya.
Sempre nel 1988, nel tentativo di mettere a tacere le manifestazioni a favore della democrazia, l’esercito birmano uccide per le strade circa 3mila persone tra studenti, monaci buddisti e civili. Con la State Law and Order Restoration (SLORC) viene dichiarata la legge marziale dalla giunta militare: in pratica, chiunque infrange la legge può essere condannato all’ergastolo, alla pena capitale o a un minimo di tre anni di lavori forzati.
Aung San Suu Kyi non si lascia intimidire e continua a tenere discorsi pubblici per tutto il Paese, incoraggiando la gente a difendere i propri diritti e a praticare la disobbedienza civile contro le leggi ingiuste, nonostante il timore diffuso delle persecuzioni.
Quando nel luglio del 1989, la State Law and Order Restoration le offre la possibilità di lasciare il Paese, a condizione di rimanere in esilio, Aung San Suu Kyi si dimostra determinata a restare in Birmania e così viene messa agli arresti domiciliari. Non sarà la prima volta che Aung San Suu Kyi è privata della propria libertà: in tutto trascorrerà 15 anni della sua vita nella sua casa a Yangon, fino a quando nel 2002 l’Onu avvia delle trattative con la giunta per liberarla.
La data della sua liberazione definitiva è il 13 novembre del 2010, Aung San Suu Kyi torna in politica, riprende a viaggiare e a rivedere i suoi figli, fino a vincere nel 2015 abbastanza seggi per formare un esecutivo. In realtà,il governo che si insedia è caratterizzato da una predominanza militare su quella civile: i generali, infatti, mantengono il controllo di quasi tutti i ministeri e il 25 per cento dei seggi in parlamento
Aung San Suu Kyi è leader de facto, una sorta di primo ministro, consigliere di stato, ministro degli esteri e ministro dell’ufficio del presidente, ma non può diventare capo di stato perché vedova di uno straniero e madre di due cittadini britannici. Il suo potere è quindi limitato e lo si denota nella persecuzione a danno delle minoranze dei Rohingya, una delle pagine più nere della storia birmana.
Da diversi anni le comunità minoritarie dei musulmani Rohingya, nello stato occidentale Rakhine, sono infatti bersaglio di attacchi dell’esercito e di alcuni fondamentalisti buddisti. Non si contano gli omicidi, gli stupri, i villaggi rasi al suolo e le centinaia di migliaia persone costrette a mettersi in fuga.
Sono numerose le denunce contro questi crimini, prima dall'organizzazione non governativa Human rights watch, poi dalla stessa Onu, da giornalisti e operatori umanitari, testimoni di tali soprusi. Dall’agosto 2017 circa un milione di Rohingya sono costretti a lasciare il Paese, mentre chi resta è condannato a essere rinchiuso in un campo di prigionia.
Ed è in questo ambito che la figura di Aung San Suu Kyi si riempie di ombre, nel momento stesso in cui non riconosce gli abusi, parla di “esagerazioni” e riversa le colpe su un gruppo di guerriglieri locali senza dare alcuna responsabilità all’esercito del Paese. Sceglie probabilmente di non infastidire i militari del governo, forse per timore di poter essere destituita dai suoi incarichi in qualunque momento, disposta a tutto pur di salvare il governo civile e non perdere il consenso dell’elettorato.