Coronavirus: quando il giornalismo diventa allarmismo

Fare informazione in campo medico-scientifico è quanto di più complicato e allo stesso tempo utile possa esistere. Noi giornalisti abbiamo il difficilissimo compito di spiegare ai lettori i fatti che riguardano la loro salute. E farlo male è un fallimento per tutta la categoria.
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Simona Cardillo 1 Febbraio 2020

Ci risiamo. Ancora una volta i giornalisti non sanno fare il loro dovere (non tutti, per fortuna). Chiariamo subito: faccio parte della categoria e me ne prendo oneri o onori. E se da una parte sono tantissimi i colleghi a cui riconoscere un encomiabile lavoro, dall'altra va ammesso come l'epidemia del coronavirus sia stata un'occasione mancata per fare una buona informazione.

Da sempre credo fermamente che il dovere di un giornalista sia quello di informare. Chi fa questo mestiere è un mediatore tra i fatti e i lettori. Il nostro compito è quello di raccontare in maniera comprensibile e senza troppe complicazioni cosa accade nel mondo. C'è chi lo fa per un colpo di stato, chi per una crisi economica e chi per una partita di calcio. Non è l'argomento di cui ognuno di noi si occupa che ci rende più o meno bravi.

Che io scriva di politica, di sport o di cronaca, ho un dovere verso i miei lettori: raccontare la verità. E questo ho sempre cercato di fare, a ogni livello, nei 12 anni della mia vita professionale. Eppure alcuni di noi sembrano aver perso di vista quest'obbligo morale che abbiamo verso chi ci legge.

Da quando è scoppiata l'epidemia del coronavirus cinese, ho visto e letto di tutto. Ogni giorno si rincorrono le più disparate notizie, ad ogni ora arrivano aggiornamenti a dir poco allarmistici sulla diffusione del virus. Da settimane su quasi tutti i mezzi di comunicazione non leggiamo altro che stime dei futuri contagi, di casi sospetti in ogni pronto soccorso italiano, di psicosi compulsiva, corsa alle mascherine, locali pubblici che vietano l'ingresso a chi viene dalla Cina.

Ho un dovere verso i miei lettori: raccontare la verità.

Basta.

Vogliamo parlare di dati? Parliamone. E per farlo darò pochi, anzi pochissimi numeri. Che però dovrebbero bastare a riprendere le redini della questione e rientrare nei ranghi della (presunta) gravità dell'epidemia.

Il dato che citerò è uno solo: il tasso di letalità. Ovvero, la percentuale di decessi sul totale delle persone contagiate da una malattia.

Il tasso di letalità del coronavirus 2019-2020 si aggira ad oggi intorno al 2,5%. Questo significa che ogni 100 persone che contraggono il virus, saranno circa 2 o 3 quelle che moriranno.

Cosa vuol dire questo? Così, può non rappresentarti nulla e potresti non sapere orientarti sui numeri. E allora ti aiuterò, citandoti gli altri tassi di letalità di epidemie che conosci o di cui avrai sicuramente sentito parlare:

Hanno ragione quindi tutti quelli che dicono che il coronavirus uccide più di una normale influenza (stando ai dati attuali). Ma dimenticano di dire che uccide infinite volte meno di ebola e Mers, 10 volte meno della Sars e solo 1-2 volte in più (su 100 casi di infezione) dell'influenza.

I dati di diffusione del coronavirus cinese sono ancora in divenire, le cose possono cambiare da un giorno all'altro e tutti noi (operatori medico-sanitari, politici, informatori e giornalisti scientifici) scopriamo che direzione prenderà questa epidemia strada facendo. Ma questo non ci autorizza a far scattare psicosi collettive. Non siamo veggenti e dobbiamo parlare di fatti e numeri reali, verificati e ufficiali.

Fare informazione in campo medico-scientifico è difficile. Chi parla alle persone della loro salute, ha una responsabilità enorme tra le mani: deve spiegare quel che sta accadendo, in modo chiaro e completo. Ma soprattutto spiegando le cose. Dando ai suoi lettori un metro di misura e di confronto, per aiutarli a capire e a comportarsi di conseguenza.

Peccato.

Il coronavirus poteva essere l'occasione per un'intera categoria di distinguersi, informare bene e non diffondere -prematuramente, allo stato attuale- paure, che diventano psicosi prima e discriminazioni poi. E invece è stata solo l'ennesima occasione persa di fare buon giornalismo.

Giornalista di professione, curiosa per passione. Amo scoprire cose nuove, andare al di là delle apparenze e conoscere i fatti in altro…