Michela Murgia

Addio a Michela Murgia, cosa ci resta della scrittrice e attivista che non viveva pensando al “cosa” ma al “come”

É mancata ieri una figura di riferimento del mondo dell’attivismo, del femminismo intersezionale e della letteratura contemporanea. Michela Murgia si è spenta a 51 anni a causa di un carcinoma renale con serenità e gratitudine lasciandoci in eredità preziosi insegnamenti sulla lotta ai diritti civili e sulla malattia.
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Evelyn Novello 11 Agosto 2023

Alla fine Michela Murgia se n'è andata, come ci aveva già annunciato. A causa di un tumore renale al quarto stadio che ormai era diventato incurabile. Se n'è andata a 51 anni  lasciandoci in eredità un modo di affrontare la vita e la malattia comune a poche persone al mondo. Scrittrice, attivista, teologa, ma, in passato, anche insegnante di religione, cameriera, portiera e operatrice di call center. É da quest'ultimo lavoro che ha iniziato a scrivere con ironia e fermezza, in Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, del precariato e del mobbing sul lavoro, denunciando in particolare la discriminazione sistemica che colpisce le donne. Proprio le donne sono state al centro della sua battaglia condotta su tutti i mezzi di comunicazione che aveva a disposizione, dalla carta ai social, dalla tv alle pubbliche interviste, presentandosi anche come importante voce politica di opposizione al governo attuale.

La lotta civile

Femminista e portavoce del mondo queer, nelle sue opere ha sempre analizzato il privilegio vissuto da alcune fasce sociali a discapito di altre tra cui le donne e il mondo LGBTQ+. Solo per riportare alcuni esempi, in Morgana. Storie di ragazze che tua madre non approverebbe, Michela Murgia aveva dato voce a dieci donne fuori dagli schemi ma che possono fungerci da esempio di lotta per i diritti. In God save the queer aveva analizzato la connessione tra religione e orientamento sessuale dimostrando come l'inclusività non sia necessariamente contraria alla fede cattolica. In Stai zitta. E altre nove frasi che non vogliamo sentire più affrontava la necessità di prestare attenzione alle parole e, quindi, di lottare affinché le donne non si facciano definire dal maschilismo (qua ricordava: "È con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse").

Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva.

Michela Murgia

L'apertura di Murgia verso tutte le comunità sociali oggetto di discriminazione era evidente nell'approccio intersezionale (corrente del femminismo che si pone a difesa dei diritti civili di ogni tipo di minoranza) dimostrato in ogni suo intervento ma anche nella vita privata. Lei stessa diceva di vivere in una "famiglia queer". Aveva da anni un compagno ma condivideva un figlio con una donna e, quando a metà luglio aveva sposato Lorenzo Terenzi, "per avere diritti che non c’era altro modo di ottenere così rapidamente" – aveva precisato – sognava il coronamento dell'amore queer, un legame d'affetto che non si vuole piegare a regole burocratiche. Sui social aveva poi pubblicato le immagini delle nozze ma aveva chiesto ai lettori: "Niente auguri, perché il rito che avremmo voluto ancora non esiste. Ma esisterà e vogliamo contribuire a farlo nascere".

La malattia

Qualche mese fa la diagnosi di un carcinoma ai reni al quarto stadio, definita subito, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scorso maggio, "non una cosa che ho ma una cosa che sono". Murgia parlava del cancro come di una "malattia gentile" e di qualcosa che faceva parte del suo essere. La formazione neoplastica, definita proprio come "formazione di nuove cellule", era per Murgia segno della complessità di un organismo vivente come l'essere umano, faceva parte del suo corpo e in quanto tale non lo viveva come un nemico da distruggere. Altrimenti avrebbe significato fare la guerra a sé stessa.

Il modo in cui chiami le cose è il modo in cui finisci per viverle

Michela Murgia

Questo approccio era dato da una serena rassegnazione e dalla pacifica accettazione di ciò che le stava accadendo, il tumore si era ormai espanso nel suo corpo e non era più operabile. Murgia sapeva la fine che la attendeva, era conscia del fatto che il tempo a sua disposizione sarebbe stato più breve di quello di altre persone ma non si sentiva una perdente, anzi, era certa di aver vissuto più intensamente di quanto altri farebbero in una vita intera. Soprattutto dopo la diagnosi ha assaporato con intensità ogni momento che la vita le ha regalato sentendosi sempre grata e riconoscendo gli instanti felici come tali. É per questo che aveva dichiarato che non le interessava vivere pensando al "cosa" ma al "come".