Francesca Poleggi di ProVita e Famiglia: “La libertà di morire non è una vera libertà”

I punti più importanti rispetto al dibattito sul tema di eutanasia e fine vita riguardano la libertà e l’autodeterminazione del malato. Ne rivendica la tutela sia chi è contro sia chi è a favore di queste pratiche. Abbiamo allora chiesto a Francesca Poleggi, tra i membri che hanno fondato l’Associazione ProVita e Famiglia, di spiegarci qual è la loro opinione rispetto a questi aspetti.
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Giulia Dallagiovanna 21 Settembre 2019
* ultima modifica il 02/02/2023

Bisogna eliminare la sofferenza, non il sofferente. È questo lo slogan della campagna promossa dall'Associazione ProVita e Famiglia contro eutanasia e morte medicalmente assistita. Ma quali sono le ragioni che portano la Onlus a prendere una posizione così netta? Proprio come accade nel caso di chi è a favore di queste pratiche, il problema riguarda di nuovo la libertà e l'autodeterminazione del malato.

Dopo aver approfondito i termini che ruotano attorno alla questione e delineato le leggi in vigore al momento in Italia, è il momento di capire le ragioni alla base delle diverse opinioni. Abbiamo quindi chiesto a Francesca Poleggi, tra i membri fondatori di ProVita e Famiglia, direttrice editoriale del sito e professoressa di Diritto alle scuole medie, di spiegarci meglio cosa intendessero con quella breve e incisiva frase riportata su diversi cartelloni.

Innanzitutto le chiedo, cosa intendete nello specifico con il termine "eutanasia"?

Il problema non è quello che intendiamo noi. In effetti nel dibattito c'è molta confusione, perché l'eutanasia dovrebbe essere la "dolce morte", quella scelta per non soffrire, proprio come facevano gli Antichi. Oggi invece questo termine comprende diversi aspetti. Si tende, ad esempio, a confondere suicidio assistito ed eutanasia, ma sono due facce della stessa medaglia: una falsa compassione con la quale si vuole porre fine alle sofferenze del malato. Se viene decisa da qualcun altro si parla di eutanasia, se invece è la persona stessa a richiederla, allora di tratta di suicidio assistito.

Alla fine, però, la differenza è molto sottile. Bisogna infatti pensare al suicidio assistito non solo a come viene presentato in teoria, ma anche a come viene compiuto nella pratica, e a come viene descritto nel libro A Chosen Death del medico californiano Lonny Shavelson. Anzi, io parlerei di "omicidio del consenziente", secondo quanto previsto dal nostro Codice penale. Se io, in completa autonomia, commetto un gesto suicida, allora è suicidio nel vero senso della parola. Ma se chiedo a qualcun altro di preparare i farmaci letali e di porgermeli fino alla bocca in modo che li possa assumere, fino a che punto è veramente mia l'intenzione?

L'Associazione ProVita e Famiglia è contro entrambe le pratiche, sia di suicidio assistito che di eutanasia, può spiegare meglio il perché?

La cosa che a noi fa più paura di tutte, proprio a causa di questo clima in cui viviamo e alla luce di tutte le esperienze dei Paesi nei quali è stata legalizzata la morte medicalmente assistita, è che viene compromessa proprio quell'autodeterminazione, che viene sbandierata da chi promuove queste leggi. Si dice che sono necessarie per tutelare la libertà del malato nella scelta di vivere o morire, ma nella realtà è proprio questo che viene a mancare. In Olanda una persona su 6 viene eutanasizzata senza che possa esprimere il proprio consenso e nel frattempo il numero dei decessi medicalmente assistiti si è moltiplicato a dismisura.

Basta guardare l'esempio di Noa Pothoven, la ragazzina di 17 anni deceduta il 4 giugno, quello non è nemmeno stato catalogato come eutanasia. Eppure qualcuno deve averla aiutata a non sentire i morsi della fame e della sete, mentre si lasciava morire e rifiutava alimentazione e idratazione. Questo è proprio un esempio di suicidio assistito. Bisognerebbe guardare le situazioni più da vicino e dare un peso più grande alle parole rispetto a quello che viene dato.

Noi riteniamo che, proprio a tutela della vera libertà e dell'autodeterminazione delle persone, soprattutto di quelle che soffrono, debba passare il messaggio che si abbia il diritto a essere curati e accompagnati, non quello di morire. In Italia abbiamo un sistema sanitario nazionale con un bilancio spesso in deficit e con problemi di risorse economiche, che intravede nell'eutanasia la possibilità di risparmiare qualche centinaio di milioni di euro. Verrebbero infatti eliminate del tutto le cure palliative e le chemioterapie per i tumori, mentre sarà sufficiente fornire farmaci letali per tutti.

Qual è quindi la vostra proposta?

Il nostro sistema sanitario deve preoccuparsi dei sofferenti, incentivando ad esempio le cure palliative, che già esistono e sono efficaci. Noi chiediamo proprio che tutti possano vedersi garantito l'accesso a queste terapie. Ho letto, invece, che ad oggi solo il 30% dei malati oncologici hanno accesso alle cure palliative. Il problema è che oggi non si investe più nella ricerca. Sono strumenti che permettono di non far sentire il dolore, perché la sofferenza fisica oggi si combatte e si sconfigge. Se infatti si vanno a vedere le statistiche nei Paesi in cui l'eutanasia è legale, si nota come le persone il più delle volte non chiedano di morire per un problema fisico, ma a causa della solitudine, dell'abbandono e per disperazione.

Spostando poi l'attenzione sui medici, dovremmo proprio chiederci quale generazione di professionisti andremo a formare, nel giro di una decina o di una ventina di anni, se entreranno in vigore tutte queste leggi eutanasiche. Saranno medici che hanno studiato come si fa a dare la morte? E l'alleanza tra medico e paziente esisterà ancora? Se si vuole davvero ottenere l'autodeterminazione del malato, si devono proporre anche delle alternative alla morte. Naturalmente, se la scelta è solo tra morire e soffrire in modo terribile, chiunque sceglierebbe la prima. Ma se invece si ha anche la possibilità di condurre una vita dignitosa, perché anche nella malattia e nella sofferenza c'è una grandissima dignità, attraverso il trattamento e la sedazione del dolore, allora probabilmente la risposta sarà diversa.

Ma secondo lei cosa manca dal punto di vista culturale?

Un fattore da non sottovalutare è la cultura dello scarto, di cui parlava anche papa Giovanni Paolo II. Oggi la società ci vuole tutti belli, intelligenti, ricchi, brillanti e vivaci. La sofferenza, l'handicap, la malattia vengono avvertite come un peso, un fastidio. L'anziano non più autosufficiente e magari affetto da demenza viene allontanato da casa, perché diventa un problema e un ostacolo alla propria vita. Queste sono realtà che oggi stanno emergendo: la società moderna ci mette di fronte a uno scenario davvero preoccupante. Si sta diffondendo una mentalità utilitaristica e consumistica, per cui diventa importante solamente lo star bene, guadagnare tanti soldi ed essere completamente indipendenti dagli altri, ma soprattutto non entrare in contatto con la sofferenza. Poi però quando si invecchia e si diviene a propria volta un peso per gli altri, l'eutanasia toccherà a noi.

C'è poi da tenere presente la pressione psicologica, un aspetto importantissimo. Ci sono testimonianze di malati gravi, in Canada, che hanno dichiarato di aver ricevuto una pressione per richiedere il suicidio assistito, come fosse una sorta di dovere e non di diritto. O almeno questo è quando racconta ad esempio Stephanie Woodward in un articolo di LifeNews. Viene posta luce sul fatto che ormai si è diventati un peso per la famiglia e per la sanità, e che tanto ormai i giorni sono contati. Si finisce per sentirsi egoisti nel voler rimanere in vita.

L'eutanasia quindi non può essere un diritto?

La morte viene vista come un diritto. Ma, attenzione: il diritto è un interesse protetto dalla legge, cioè qualcosa di buono. La morte è un male, non un bene. Nel momento in cui diventa un diritto, lo Stato ha il dovere di fornirlo. E, per il principio di uguaglianza, lo deve garantire a tutti. Non può essere consentito solo a un caso limite, come ad esempio, quello noto di Dj Fabo, ma anche a una persona che magari è semplicemente depressa e quindi stanca di vivere. Ecco perché la nostra recente campagna pubblicitaria è stata impostata in quel modo. Negli altri Paesi dove la morte medicalmente assistita è legale, la legge ha iniziato con il permettere il decesso alle persone che avevano una sofferenza fisica, e poi ha allargato la possibilità anche a chi era depresso. D'altronde, chi può giudicare quale sia il mio grado di sofferenza, anche se non ho problemi fisici? In nome della libertà, dovrebbe dipendere solo da me.

E poi chi ci garantisce che questa modalità di morire sia davvero indolore? Tanti anni fa gli Anestesiologi usavano il Roipnol e il Valium in dosi massicce per sedare alcuni pazienti, anche per interventi di routine. A un certo punto, però, hanno smesso di impiegare questi due tipi di medicinali, perché i malati ai quali li somministravano hanno testimoniato che il farmaco li calmava solo in apparenza: il loro corpo era inerte, mentre loro erano completamente coscienti per cui soffrivano le pene dell'Inferno. Provavano panico, angoscia e tutte quelle sensazioni negative che il medico pensava di avergli risparmiato. Queste persone, però, hanno potuto spiegare che i medicinali non avevano funzionato e sono stati sostituiti. Ma chi è tornato dall'eutanasia per dire che è stata davvero una morte senza dolore? Ci sono tanti casi di persone che hanno avuto accesso al suicidio assistito e poi però non sono morte dopo l'assunzione del preparato farmacologico, perché magari i medici hanno sbagliato a prescrivere le dosi o il loro corpo ha opposto maggiore resistenza. Quanta gente quindi è poi dovuta essere uccisa in qualche altro modo? Si può leggere anche nel libro di Shavelson di cui parlavo prima e lui rimane convinto della giusta pratica dell'eutanasia. Di nuovo, dove sta l'autodeterminazione?

Qual è invece la vostra opinione nei confronti del testamento biologico?

La legge sulle DAT introduce subdolamente l'eutanasia, proprio per le persone disabili e per chi non è in grado di fornire le ultime volontà. Il problema è: tra dieci o vent'anni, quando arriverà il momento di mettere in pratica le disposizioni date in passato, la si penserà ancora nello stesso modo? Quante persone sono uscite dal coma e hanno raccontato che sentivano e percepivano quello che accadeva loro intorno? Loro poi si sono risvegliate, ma cosa sarebbe successo se avessero redatto prima un testamento biologico e avessero avuto accesso a una morte medicalmente assistita? Come si può valutare la loro volontà in quel momento?

Davanti alla reale possibilità di vivere o morire, le persone spesso cambiano idea. In Italia la legge consente, in caso di minore disabile, di avere accesso alla morte medicalmente assistita, peraltro per fame e per sete quindi in modo atroce, senza che sia stata confermata la sua volontà, ma solo seguendo le disposizioni fornite da un tutore. Questa è l'autodeterminazione che viene proposta con il testamento biologico. Quindi noi contestiamo che la libertà della persona venga realmente tutelata, perché non è affatto così. Dalla morte poi non si torna più indietro.

Nei casi di Piergiorgio Welby o Dj Fabo non si può quindi parlare di autodeterminazione?

La legge deve essere generale e astratta, non può essere elaborata sul caso concreto. Ma per garantire l'autodeterminazione a un malato che ne è convinto, quanti di quelli che invece non hanno potuto esprimersi dovrebbero morire? Per rimanere sui casi più famosi, penso a Eluana Englaro, Vincent Lambert o Alfie Evans. Ci sono poi tantissime persone senza voce, che non arrivano alle pagine dei giornali. Non si deve eliminare il sofferente, ma la sofferenza. I malati devono essere accompagnati, sostenuti. Se ad esempio una persona ama la musica, dovrebbe essere aiutata a vivere di musica.

E poi, era necessario tutto quel clamore mediatico? Se Marco Cappato avesse fornito i farmaci a Dj Fabo a casa sua, probabilmente nessuno l'avrebbe denunciato. La volontà era quindi quella di andare su tutti i giornali. Si poteva chiedere a qualcuno che lo aiutasse a suicidarsi senza per forza dover andare in Svizzera. Però ha voluto richiamare l'attenzione sul suo caso, affinché venisse approvata una legge. Ma questo provvedimento, che nasce da un singolo caso, va poi a colpire l' autodeterminazione di persone che invece non possono esprimersi. Terry Schiavo e Alfie Evans erano forse determinati a voler morire? Dare a qualcun altro il potere di decidere è un principio troppo pericoloso. Perché magari sono io a chiederlo, ma poi alla fine è comunque qualcun altro che decide. Magari un parente, ma i parenti poi sono quelli che ereditano e chi assicura che siano davvero persone integerrime?

E non potrebbe essere invece un modo per evitare l'accanimento terapeutico?

Siamo assolutamente contro l'accanimento terapeutico. Ma questo accade quando le cure sono sproporzionate rispetto al risultato che possono avere. Naturalmente il medico deve informare il malato rispetto ai trattamenti ai quali dovrà sottoporsi e ai possibili effetti collaterali o alle sofferenze. Ma se il fine è stare meglio, non c'è accanimento. È quando non viene prospettato nessun benessere che arriva l'accanimento terapeutico e naturalmente non deve essere praticato, perché sarebbe solo un modo per prolungare le sofferenze. Stiamo però attenti a chiamare le cose con il loro vero nome. Dare da mangiare e da bere a Vincent Lambert non era accanimento terapeutico: magari lui riusciva comunque a essere felice anche in una condizione vegetativa. Noi non possiamo metterci nei suoi panni e non possiamo giudicare.

La libertà di morire non è una vera libertà, perché finisce la vita e quindi le possibilità di scegliere. Oltre al fatto che si rompono tutti i legami. Anche la persona più sola al mondo quando si uccide, spezza dei rapporti con chi aveva intorno. La vita è un intreccio meraviglioso e complicatissimo, proprio perché siamo persone e non individui soli. Le leggi eutanasiche invece uccidono la speranza e gettano ancora di più nella depressione, invece che aiutare chi ne soffre. La legge ha un valore pedagogico: deve educare alla vita.

Fonte| Associazione ProVita e Famiglia

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