Louis-George Tin: “In 20 anni abbiamo invertito il paradigma: ora sono gli omofobi a doversi giustificare per ciò che fanno”

Il 17 maggio 2024 sono 20 anni che si celebra la Giornata internazionale contro l’omobitransfobia. Abbiamo intervistato il fondatore, l’attivista francese Louis-George Tin, per capire quali passi avanti sono stati fatti nei confronti della comunità Lgbt+.
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Francesco Castagna 17 Maggio 2024

Qual è stato il primo momento in cui livello internazionale tra le istituzioni si è cominciato a parlare seriamente di omofobia? Nel 2003 Louis-George Tin, attivista e accademico francese, ha pubblicato "Le Dictionnaire de l'homophobie", un testo che nel tempo è diventato un riferimento per tutta la comunità Lgbt+ e che gli ha permesso, tramite la rete di contatti che si era creato, di fondare l'IDAHOT (prima IDAHO, poi nel 2009 viene aggiunta la "T" a supporto delle persone transessuali), il comitato organizzatore della Giornata contro l'omobitransfobia. Lo abbiamo intervistato in occasione dei 20 anni dal primo evento, il 17 maggio del 2004, per capire quali cambiamenti ci siano stati e cosa possiamo aspettarci nei prossimi anni.

A 20 anni dalla prima Giornata contro l'omobitransfobia possiamo fare un'analisi: come è cambiata la percezione nei confronti della comunità LGBT+?

A livello internazionale, credo che la lotta contro l'omobitransfobia sia diventata più legittima nel tempo. Quando ho iniziato la mia battaglia, anche le parole non erano familiari alla maggior parte delle persone in tutto il mondo. La gente non sapeva cosa significassero tutti questi termini, quindi venti anni fa erano le persone Lgbt a doversi giustificare. Quando affermavi di essere omosessuale, bisessuale, o transessuale, ti chiedevano: perché sei così? Ora, dopo che per anni abbiamo iniziato a diffondere questi termini, sono diventati più comuni e più popolari. Oggi, infatti, sono gli omofobi o i transfobici a doversi giustificare.

Il paradigma si è invertito: ora sono loro il problema, sono loro le persone aggressive e che mandano altri esseri umani in prigione. Oggi sono loro a dover rendere conto di ciò che fanno, non siamo più noi a doverlo fare.

Potrebbe spiegarci in che modo è riuscito a convincere la comunità internazionale della necessità e dell'importanza della Giornata contro l'omobitransfobia? 

Certamente, con piacere. Il primo passo è stato scrivere il "Dizionario dell'omofobia" (un testo realizzato dall'accademico Louis-George Tin, ora considerato un punto di riferimento per quanto riguarda l'analisi dei contesti sociali in cui ha origini l'omofobia Ndr), in Francia nel 2003. Al tempo fu, se non ricordo male, il primo o il secondo libro sull'omofobia pubblicato nel Paese. Il testo ha avuto una larga diffusione sia nel mondo intellettuale che nei principali giornali nazionali.

Improvvisamente l'omofobia in Francia ha preso forma, è diventata qualcosa di cui parlare, un tema di cui discutere, preoccuparsi. Sono stato molto contento di ciò che ho fatto. Ho scritto un'enciclopedia sulla storia dell'omofobia in diversi Paesi: cos'è, come funziona etc. Ma poi mi sono detto: "Il Dizionario dell'omofobia è qualcosa di teorico, ora dobbiamo passare all'azione".

Basandomi su ciò che ho imparato e sui miei studi, dal momento che questo libro è stato frutto del lavoro di oltre 70 persone, sono ricorso alla rete di contatti che mi ero creato nel tempo. Ho utilizzato questo capitale sociale, fatto da politici e intellettuali, per passare dalla teoria alla pratica.

Senza dubbio, avevo in mente la Giornata contro l'Aids, quella per supportare i diritti delle donne, quella per i diritti umani, e ho pensato: perché non una contro l'omofobia? Prima di tutto, ho pensato che avevamo bisogno di trovare una data. Ho scelto il 17 maggio, perché -come sapete- è il giorno in cui nel 1990 l'Organizzazione mondiale della Sanità ha rimosso l'omosessualità dall'elenco delle malattie mentali.

L'ho fatto soprattutto per tre motivi: prima di tutto, è una giornata internazionale, non volevo che rimanesse qualcosa di nazionale. Se avessi scelto una ricorrenza proveniente dalla cultura statunitense, le persone mi avrebbero chiesto perché avessi privilegiato gli americani. Lo stesso sarebbe accaduto per la cultura inglese, cinese etc. E avrebbero avuto ragione.

Il secondo motivo fu chiaro: volevo scegliere un giorno positivo, di speranza, di vittoria. Un massacro sarebbe stato un messaggio altrettanto forte, ma molto poco stimolante. E, inoltre, volevo che la gente facesse per le persone transgender nel futuro ciò che era stato fatto per gli omosessuali in passato.

Ho pensato che se l‘Organizzazione Mondiale della Sanità fosse stata in grado di rimuovere l'omosessualità dalla lista dei disordini mentali nel 17 maggio del 1990, allora avrebbe potuto fare lo stesso per le persone transessuali. E difatti è ciò che è accaduto, nel 2018, perché abbiamo iniziato una campagna di sensibilizzazione sul cosiddetto "transessualismo", come lo definiva l'OMS.

Il 17 maggio di quell'anno, la Francia è stato il primo Paese a rimuovere il transessualismo dalla lista dei disordini mentali, in linea con lo scopo della nostra campagna. Dopo aver fatto ciò, ci hanno detto di voler chiedere all'Organizzazione Mondiale della Sanità di fare lo stesso. Il Ministro della Salute è andato a Ginevra per iniziare la campagna, che ha avuto i suoi risultati positivi dieci anni dopo. Per questo credo di aver fatto una scelta vincente ad aver scelto il 17 maggio, perché funzionò e molte persone hanno partecipato all'evento.

Il primo anno 40 Paesi hanno iniziato a organizzare eventi, l'anno dopo eravamo più di 70. Oggi siamo oltre 140 Stati a organizzare e celebrare la Giornata internazionale contro l'omobitransfobia. Inoltre, il 17 maggio è riconosciuto ufficialmente dall'Unione Europea, dagli Stati Uniti e dalle Nazioni Unite, ogni anno il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, fa una dichiarazione in occasione di questa ricorrenza.

Ci è voluto molto tempo per arrivare a tutto ciò, il primo anno mi ricordo di aver lavorato ininterrottamente da agosto del 2004 a maggio del 2005. Quell'anno ho preso solo due giorni di ferie, uno a Natale e l'altro per il Capodanno, ma avrei lavorato costantemente, anche ogni domenica. Ho fatto un calcolo: sono state più di 2.000 ore di lavoro solo il primo anno. Anche durante gli anni successivi ho lavorato mediamente lo stesso, ma il primo anno dovevo assolutamente lavorare ogni giorno, perché volevo che fosse un successo.

Perché? Per il semplice fatto che, se non ci fossi riuscito, non ci sarebbe stata nessun'altra possibilità. Le opzioni erano solo due: "riuscirci" o "sbagliare". Per questo motivo dovevo riuscire a organizzare la Giornata contro l'omotransfobia almeno in 10 Paesi con eventi significativi. Se infatti fossi riuscito a organizzare una manifestazione con alcuni amici, associazioni e forse due Paesi europei, la gente mi avrebbe detto di organizzare una festa, non qualcosa di più serio. Se invece volevamo essere visti come qualcosa di internazionale dovevamo avere al nostro fianco almeno 10 Paesi in tutti continenti.

…e come è andata?

Il primo anno c'erano 40 eventi in tutti i continenti. Non solo in Europa, ma anche in Cina, in Iran, in Senegal, in Venezuela etc. È stata una manifestazione veramente internazionale, e proprio per il respiro che ha avuto, molta gente che non aveva partecipato il primo anno ci chiese di farlo successivamente. Il successo del primo anno ha trainato quello del secondo, e così via.

Com'era la situazione in Italia al tempo? 

L'Italia ha giocato un ruolo interessante. Mentre stavo portando avanti la campagna per realizzare la prima Giornata contro l'omotransfobia c'erano, se ricordo bene, le elezioni europee. Uno dei componenti della nuova Commissione era Rocco Buttiglione per l'Italia. Buttiglione al tempo era noto per le sue dichiarazioni sessiste e per le sue posizioni omofobe. Ma il Presidente Barroso ha continuato comunque a creare la sua Commissione, è molto difficile portare avanti un processo del genere. Inoltre, al tempo non c'era la sensibilità tale per cui potevi far rimuovere qualcuno solo perché omofobo o sessista.

Quando lo abbiamo saputo, abbiamo deciso che non potevamo permettere che ciò accadesse. Abbiamo organizzato una campagna molto importante, e tutte le organizzazioni che erano collegate, o in qualche modo avevano avuto contatti con l'IDAHO, hanno realizzato che la rete che avevamo creato poteva essere molto utile per tutte le campagne internazionali.

Tutte queste realtà europee, che abbiamo cercato di coinvolgere, si sono dette a favore della mobilitazione. Il nostro obiettivo era quello di indurre il Presidente Barroso a non nominare Buttiglione e chiedere all'Italia di scegliere un altro rappresentante. Abbiamo fatto una petizione che ha fatto il giro dei media internazionali e siamo riusciti nel nostro intento. Per l'Italia non è stato un evento positivo, ma ci è servito perché, quando è successo, la gente ha detto "wow, è la prima volta nella storia europea che l'essere sessista o omofobo rappresenta un problema".

Solitamente le persone, anche se qualcuno ha posizioni del genere, pensano che sia una posizione personale, un'opinione. Per la prima volta nella storia le persone hanno detto "no, questo non va assolutamente bene". Un altro aspetto in cui è stata coinvolta l'Italia fu per via del Vaticano, ovviamente se si considera questa istituzione come parte del Paese, anche se al tempo era in grado di influenzare notevolmente l'opinione dei governi italiani. Quando iniziammo la campagna per la depenalizzazione a livello mondiale dell'omosessualità -dopo che il primo anno siamo riusciti a istituire la Giornata contro l'omotransfobia- centinaia di organizzazioni hanno aderito e firmato petizioni, hanno partecipato premi Nobel come Dario Fo, Desmond Tutu, Amartya Sen, che hanno contribuito a mobilitare persone per il tema. Siamo riusciti ad arrivare alle istituzioni delle Nazioni Unite, la Francia ci ha appoggiati come IDAHO, portando la nostra campagna all'ONU e ottenere una risoluzione votata dalle Nazioni Unite. Ovviamente, come potete immaginare, era una campagna molto difficile. E devo dire, di nuovo, che il maggiore oppositore era l'Italia.

In realtà sarebbe più corretto dire che il maggiore oppositore era il Papa, ed è molto interessante ricordare come questa istituzione avesse organizzato una campagna contro di noi, molto sottile ed efficace. Il Vaticano infatti aveva cercato di mobilitare tutti i Paesi conservatori e omofobi di qualsiasi credo religioso. Per questo motivo, prima con Giovanni Paolo II e poi con Benedetto XVI, riuscirono a essere così potenti. Molti Paesi con una fede non cattolica li supportarono, anche i Paesi musulmani che solitamente non vedono di buon occhio i cattolici si sentirono di appoggiare quest'azione perché riguardava l'orientamento sessuale. E poi i Paesi asiatici, quelli protestanti, tutti sembravano essere d'accordo con il Vaticano, che fu appoggiato anche dalla Russia.

Il Vaticano è stato un attore cruciale nel creare un coordinamento tra realtà che non concordavano su nulla, tranne che sul sessismo e l'omofobia. Erano contro la depenalizzazione dell'omosessualità, perché pensavano che avrebbe potuto portare a diverse patologie mentali, come la zoofilia.

Sorprendentemente, il Vaticano ha tolto la sua firma all'azione contraria all'ultimo minuto, perché non voleva essere visto come "troppo omofobo". Lo ha fatto giustificandosi e dicendo di non volere essere associato agli altri Stati che avevano preso parte all'iniziativa. Quindi, alla fine, il Vaticano ha costruito una rete di contatti per contrastare la nostra iniziativa, ma alla fine si è tirato indietro e ha deciso di voler essere neutrale. Quando alla fine siamo andati all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 68 Paesi (compresi gli Stati Uniti, con Barack Obama appena eletto) hanno votato a favore della depenalizzazione dell'omosessualità, mentre il Vaticano era riuscito a metterci contro 56 Stati (Per ottenere la maggioranza dei voti, però, la risoluzione deve ottenere almeno 96 voti, perciò attualmente non è ancora passata Ndr).

Mr. Tin, quali sono le sue aspettative per il futuro?

Non sono stato presidente dell'IDAHO per molti anni, ho lasciato la mia posizione nel 2012 perché pensavo che quello che ero riuscito a ottenere fosse già stupendo, e poi non volevo essere l'unico. Ho voluto portare a termine le battaglie principali, tra cui la depenalizzazione dell'omosessualità e la rimozione del transessualismo dalla lista delle malattie mentali delle Nazioni Unite. Ora mi sto occupando di altre battaglia, perché sono il Primo Ministro dell'Assemblea dell'Africa, ma questa è un'altra storia. Quello che posso dirti, per ora, è che sto ancora lavorando -nonostante tutto- per convincere la Francia a presentare una nuova risoluzione ONU per chiedere all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite di depenalizzare a livello globale l'omosessualità. Mi auguro che accada a breve.

Credo molto in ciò che faccio, ma soprattutto nella forza delle mie battaglie, che è fornire agli attivisti gli strumenti internazionali per portare avanti le loro lotte a livello locale. Le persone tendono a sottovalutare il potere di una rete internazionale e regionale allo stesso tempo, ma la sua forza è stata dimostrata nel 1994 con il riconoscimento delle coppie omosessuali in Europa. Prima Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca, poi Lussemburgo e Belgio. Subito dopo la Spagna, seguita dalla Francia, che non poteva rimanere indietro rispetto a un Paese cattolico come la Spagna. E, infine, tutti gli altri Paesi, tra cui l'Italia. Lo stesso è accaduto in Africa, quando abbiamo cominciato la nostra campagna di depenalizzazione in quei Paesi, molti Stati hanno appoggiato la nostra iniziativa, altri, per esempio, ci hanno detto di non essere pronti per un dibattito a livello nazionale, ma che avrebbero supportato le nostre azioni a livello internazionale.

E un altra cosa che mi sento di dire è che spesso i diritti lgbt+ sono stati osteggiati da diversi Paesi, perché rappresentavano una cultura nemica. È il caso degli Stati del Sud America, che non volevano discutere di diritti civili perché pensavano fosse una cosa degli USA, la osteggiavano. Ma a un certo punto è cominciata una discussione di senso e di contenuto, per cui la rivoluzione sessuale è parte della Rivoluzione più ampia. Fu un messaggio molto forte in Paesi come il Venezuela, o a Cuba.