
In principio l'idea di rivolgersi a un terapeuta ha origine dal desiderio di porre fine a un disagio, di risolvere un problema o di superare un momento particolarmente complesso. Ma cosa succede se si finisce per innamorarsi del proprio terapeuta e diventarne addirittura dipendente? Forse non è una condizione così comune da averne avuta diretta esperienza, ma abbiamo tutti sorriso nel vedere nel film "Maledetto il giorno che t'ho incontrato" una giovane e nevrotica Camilla, interpretata da Margherita Buy, innamorata persa del suo analista Ludwig Altieri.
In verità, Freud conosceva già bene il problema. Il padre della psicanalisi spiegava il fenomeno attraverso il concetto di transfert, vale a dire quella condizione emotiva che caratterizza la relazione del paziente nei confronti dell’analista. L’innamoramento verso il terapeuta sarebbe una forma particolare di transfert, un possibile “effetto collaterale” della psicoterapia, anche se non succede a tutti e non in tutte le situazioni terapeutiche.
Per capirne di più abbiamo rivolto alcune domande a Oriana Ermeti, Psicoterapeuta e Psicoanalista e Alice Pari, Psicoterapeuta e Psicoanalista.
È necessario innanzitutto distinguere tra psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista. Lo psicologo ha competenze di diagnosi e sostegno, non di cura. Lo psicoterapeuta si dedica alla terapia, alla cura, di sintomi singoli o specifici che mettono in sofferenza la persona. Lo psicoterapeuta psicoanalista porta avanti la cura a livello profondo, fino a ritrovare l’origine del sintomo e a comprenderne la funzione nella vita della persona.
Il processo psicoanalitico si basa sul concetto di transfert, scoperto da Freud come processo spontaneo tra analista e paziente; esso si presenta come una riedizione, portata all’interno della relazione attuale con la persona del terapeuta, di esperienze psichiche che il paziente
ha avuto con persone significative del passato.
Il transfert può essere positivo o negativo, possono cioè essere indirizzati al terapeuta sentimenti positivi o negativi. Lacan chiarisce ulteriormente la natura del transfert suggerendo che non si può parlare di transfert senza parlare di amore e di desiderio dell’altro. Rifacendosi all’Hegel letto da Kojève, egli trae la tesi che l’essere umano desidera il desiderio dell’altro.
L’espressione “il desiderio dell’altro” ha un doppio significato: da un lato istituisce l’altro come oggetto del mio desiderio, dall’altro rende me l’oggetto del desiderio dell’altro. Nella teoria lacaniana del transfert la dimensione dell’amore si annoda naturalmente anche a quella del sapere; l’analista è investito eroticamente nel transfert analitico in quanto egli è ritenuto possedere il sapere sull’inconscio, ciò che c’è di più intimo per il soggetto. Sull’analista viene dunque trasferito l’amore per l’esistenza di un sapere di cui egli disporrebbe, ma che il soggetto non sa.
L’analista ha sempre presente che questo amore che il paziente gli indirizza non riguarda lui come persona, ma il sapere riguardo all’intimità del paziente che egli è supposto possedere. L’analista saprà allora indirizzare questa domanda di sapere verso la verità dell’inconscio del paziente, la verità del suo desiderio, della sua sofferenza sintomatica, il suo "Perché sto male? Cosa vuol dire questo mio stare male?"
Questo è il primo passo per spezzare una potenziale dipendenza del paziente dall’analista, metterlo nella condizione di essere lui in prima persona ad interrogare ed indagare il suo sintomo, metterlo al lavoro.
È anche possibile che il soggetto arrivi dall’analista senza la consapevolezza di avere un sintomo, poi il fatto di rivolgersi ad uno psicoanalista, di cominciare a parlare, può far sì che egli colga di avere un comportamento, una sofferenza, sul cui significato iniziare ad interrogarsi. Per Freud esistono tre mestieri impossibili: governare, educare e curare, che corrispondono anche a tre possibili cedimenti dalla posizione dell’analista.
Se l’analista pensa di poter governare non la cura, ma la vita del paziente, scivola verso la posizione, il discorso, del padrone, di cui tratta Lacan nel Seminario XVII. Se l’analista pensa di poter educare, rischia di scivolare verso la posizione del maestro, e va ricordato che «l’educazione più aberrante non ha mai avuto altro motivo che il bene del soggetto» (J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere (1958), in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 615.). Se l’analista pensa di poter curare scivola verso la posizione del medico: colui che è depositario del sapere, del discorso della scienza, dal quale si rischia il ricorso alla quantificazione, alla riduzione del fenomeno a cifra, protocollo, misurazione e valutazione, come vediamo nel sempre maggior ricorso a diagnosi di DSA, BES, ADHD, ecc.
Il desiderio dell’analista è sempre rivolto al volerne sapere dell’inconscio e del desiderio dell’altro che si configura come un enigma. Il non rispondere da parte dell’analista alla domanda d’amore, di accudimento, di sostegno del paziente, mantiene aperta ed operativa la possibilità per il paziente di rimanere non dipendente dall’analista e di interrogarsi sulla sua verità inconscia. In definitiva, il dispositivo analitico non è altro che un modo di riattivare l'inconscio. «La dinamica della cura dipende dal desiderio che spinge verso un nuovo sapere da scoprire. L'analisi non si fa senza l'analista. Il transfert è articolato con il desiderio dell'analista» (S. Freud, Opere complete, Opere 11, Analisi terminabile e interminabile, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 2013, Formato Kindle).
Rispetto al momento di conclusione di un’analisi Freud nel suo testo Analisi terminabile e interminabile ci dà delle precise indicazioni: occorre innanzitutto mettere l’accento su ciò che intendiamo con l’espressione polivalente di “fine di un’analisi”. La prima è che il paziente non soffra più dei suoi sintomi e delle sue angosce, nonché delle sue inibizioni; la seconda è che l’analisi giudichi che il malato è stato reso tanto cosciente relativamente al materiale rimosso, che sono state debellate tante resistenze, che non c’è da temere il rinnovarsi dei processi patologici in questione.
L’altro significato dell’espressione “fine di un’analisi” è di gran lunga più ambizioso. In nome di esso, ciò che ci domandiamo è se l’azione esercitata sul paziente è stata portata tanto avanti che da una continuazione dell’analisi non ci si possa ripromettere alcun ulteriore cambiamento. L’analisi deve determinare le condizioni psicologiche più favorevoli al funzionamento dell’Io; fatto questo, il suo compito può dirsi assolto. Alla fine dell’analisi il soggetto avrà imparato ad avere a che fare in modo più efficace con il suo sintomo (per quanto ne rimarrà sempre una coda, una parte che non potrà essere completamente eliminata) ed a quel punto l’analista potrà essere lasciato cadere, evacuato.
In alcuni casi il paziente può non riuscire a fare questo distacco spontaneamente e starà all’analista, attraverso i sogni, i lapsus le dimenticanze e le altre forme dell’inconscio portate in seduta, ascoltare il “non detto” del paziente ed accompagnarlo nella decisione di terminare la terapia. Un terapeuta che conduca la cura in modo etico e competente potrà segnalare al paziente quando è il momento di concludere il percorso.