Il modo in cui trattiamo l’infarto potrebbe cambiare: uno studio italiano rivoluziona le linee guida

Un lavoro importantissimo, presentato al Congresso della Società Europea di Cardiologia e pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology. Secondo gli autori, bisognerebbe attivare un approccio su misura del paziente ed evitare di somministrare farmaci antiaggreganti a presciendere. Un metodo che potrebbe migliorare la vita della persona e ridurre i costi di gestione.
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Giulia Dallagiovanna 3 Settembre 2020
* ultima modifica il 23/09/2020

Forse l'infarto dovrebbe essere trattato in modo diverso. È uno studio italiano, pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology e presentato al Congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC), a mettere in dubbio le attuali procedure che vengono attivate negli ospedali e a suggerirne altre che sembrano dare risultati migliori. Al contrario di quello che di norma si tende a fare, però, in questo caso la scelta più efficace è quella invasiva, a discapito dei farmaci. Dunque un intervento effettuato entro le 24 ore successive all'episodio sarebbe da preferirsi alla terapia antiaggregante, somministrata a tutti i pazienti prima, e a volte anche dopo, la rivascolarizzazione, cioè quando viene ripristinato il sangue verso la zona colpita dall'ischemia.

Lo studio DUBIUS si occupa innanzitutto di uno specifico tipo di infarto, ovvero quello in cui l'arteria coronarica non è del tutto ostruita. In gergo tecnico prende il nome di NSTEMI ed è la forma più diffusa. In Italia, ad esempio, colpisce ogni anno 80mila persone e di queste 52mila vengono sottoposte a stent coronarico. Da qui l'esigenza di capire meglio come intervenire. La ricerca è partita nel 2015 in modo indipendente ed è stata poi patrocinata dall'AIFA (Agenzia italiana del farmaco) e finanziata dal GISE (Società italiana di cardiologia interventistica). I dati sono stati raccolti da ben 30 centri d'eccellenza, diffusi in tutto il nostro Paese.

Lo scopo di partenza era quello di "individuare la strategia di trattamento farmacologico più efficace e sicura – spiega Giuseppe Tarantini, presidente del GISE e una delle due guide dello studio, – nelle fasi che precedono la coronarografia, l’angioplastica coronarica e il bypass aorto-coronarico. Era necessario valutare in modo rigoroso le implicazioni cliniche dell'approccio farmacologico più comunemente utilizzato, il cosiddetto pretrattamento che viene applicato a tutti i pazienti fin dal primo sospetto diagnostico di infarto. Il DUBIUS lo ha confrontato con una strategia selettiva, basata sulla somministrazione di un antiaggregante solo dopo la certezza della diagnosi ottenuta dalla coronarografia”.

Lo studio suggerisce di partire con una coronarografia da accesso radiale, cioè dal polso

E i risultati hanno dimostrato come sia fondamentale adottare, anche in un contesto di patologia piuttosto diffusa, un approccio su misura a ogni paziente. Invece che somministrare un trattamento antiaggregante a prescindere, quindi, è meglio cominciare con una coronarografia da accesso radiale, ovvero dal polso, che deve però essere effettuata nel giro di massimo 24 ore dall'episodio.

In questo modo si potrebbero risparmiare gli effetti collaterali dei farmaci ai pazienti che non ne hanno davvero bisogno. Più nello specifico si tratta di chi, mentre l'infarto è ancora in corso, debba sottoporsi a a un bypass coronarico o di chi, dopo aver eseguito la coronarografia, scopre che in realtà quello che gli è capitato non poteva essere davvero definito come attacco cardiaco. Una buona fetta dei pazienti che ogni anno accedono al pronto soccorso mentre il loro cuore sta accusando un grave colpo: insieme, fanno circa il 20%.

Un altro vantaggio è poi quello di accorciare i tempi di permanenza in ospedale, riducendo anche i rischi di complicanze. Oltre, naturalmente, ai costi economici.

Insomma, questo studio italiano è destinato a rivoluzionare il modo in cui in tutto il mondo viene trattato questo tipo specifico di infarto. Con miglioramenti importanti sia per il paziente, che per l'ospedale che lo prende in carico.

Fonte| GISE

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