È il 14 dicembre del 1990 quando una nave cargo naufraga per poi arenarsi sulle coste della Calabria, ad Amantea. Sulla nave non c’è equipaggio, che l’ha abbandonata quando era in mare aperto, e sul fianco c’è un grande squarcio che non sembra essere compatibile con un incidente marittimo. La nave fu demolita sulla stessa spiaggia un anno dopo l'incidente, ma ancora oggi ci sono parecchie cose che non tornano in quelle operazioni. L'ipotesi che spaventa la gente del posto, da ormai quasi 35 anni, è che all’interno di quello squarcio ci fosse materiale radioattivo, in un secondo momento liberato nell’ambiente.
La nave in questione è la Jolly Rosso, ma noi oggi la conosciamo anche come la "nave dei veleni".
“Dalle informazioni acquisite appare possibile stabilire che la motonave Jolly Rosso tornò dal Libano nel gennaio 1989 carica di rifiuti per ancorarsi presso il porto di La Spezia. I rifiuti vennero scaricati nel due anni successivi”, inizia così una delle relazioni della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti della XVI legislatura, quella che riguarda anche la Jolly Rosso. Dico "anche" perché questo episodio si inserisce in una raccolta ben più ampia di circostanze sospette che si sono verificate principalmente sulle coste calabresi tra gli anni ‘80 e ‘90 che riguardano navi, denominate “a perdere”.
La dinamica dei fatti che è stata ricostruita nel rapporto della Capitaneria di porto di Vibo Valentia all’epoca dei fatti è questa: la Jolly Rosso si è arenata sulle coste cosentine dopo aver navigato per alcune ore alla deriva ed essere stata abbandonata dal suo equipaggio a causa dell’imbarco di acqua dalla stiva. Ipotesi smentita sia dal titolare della ditta che si occupò della demolizione della Rosso (Nunziante Cannavale), che dal sommozzatore incaricato di ispezionare la nave.
Entrambi hanno dichiarato di non aver trovato nessuna falla. Anche il pubblico ministero Greco che si stava occupando delle indagini affermò, dopo aver acquisito alcune immagini, che la motonave "non presentava alcuna falla nel momento in cui si era arenata e che solo in una fase successiva era stata trovata una notevole apertura sulla fiancata sinistra, praticata dalla società Smit Tak, specializzata anche nel recupero di rifiuti nucleari”. Società intervenuta per rimettere in mare la nave, ma che effettivamente dopo 20 giorni chiese la sua demolizione e lo smaltimento di tutto ciò che si trovava a bordo.
Questa è stata la prima cosa che ha creato dubbi: perché quello squarcio? Secondo i carabinieri sarebbe servito per “fare uscire dalla stiva qualcosa di importante e voluminoso”.
Il secondo sospetto riguarda il carico. Ufficialmente la Jolly Rosso trasportava liofilizzati, tabacchi e altri generi di consumo, ma diverse cose emerse durante le indagini hanno sollevato l’ipotesi che la nave contenesse anche rifiuti tossici e radioattivi. A partire dall’intervento della Smit Tak, che come abbiamo detto si occupava di bonifiche per rifiuti nucleari.
In più le autorità, dopo lo spiaggiamento, avevano richiesto la rilevazione della radioattività nelle zone limitrofe alla spiaggia in cui era avvenuto il naufragio. Insospettì anche che i dirigenti della società proprietaria della nave e il comandante ebbero la necessità di salire con urgenza sulla nave dopo lo spiaggiamento per prendere documenti di straordinaria importanza dalla cassaforte.
Un altro elemento attenzionato dalle autorità riguarda le operazioni di smaltimento. Prima della demolizione, oltre a quelle autorizzate, sarebbero state effettuate altre operazioni non autorizzate in orari notturni e in luoghi non autorizzati, come il fiume Oliva. Qui, a seguito delle analisi effettuate anni dopo, sarebbero state trovate tracce di metalli pesanti, PCB e diossine, non riconducibili all’attività industriale di Amantea. La cosa che preoccupa maggiormente, come riportato durante l’audizione del 12 gennaio 2010 dal procuratore Greco, nonché “l’unica che davvero non si può giustificare dal punto di vista della normalità” sono i valori del cesio 137 radioattivo. Greco li definisce “abbastanza preoccupanti” e fa riferimento anche al ritrovamento di “polvere di marmo”. Una polvere particolare che, come disse lo stesso procuratore, suscitò grande curiosità e fantasia, perché è quella che viene utilizzata per schermare i rifiuti nucleari”.
A questo si aggiunse il ritrovamento a bordo della nave di una serie di documenti “con strani cenni a materiale radioattivo”, come riportato dal comandante della capitaneria di porto Bellantoni al Capitano Natale de Grazia, in seguito morto in circostanze sospette mentre era arrivato a un punto di svolta nelle indagini sulle navi dei veleni. In questi documenti c’era la sigla O.d.m – Oceanic Disposal Management Inc, la stessa presente nelle carte trovate da De Grazia anche in casa di Giorgio Comerio, ingegnere finito al centro di numerose inchieste legate al traffico internazionale di rifiuti tossici. Comerio era anche a capo della società che si era ritirata dai lavori di bonifica della Jolly Rosso.
Insomma, non risulta difficile capire perché la Procura della Repubblica di Paola dopo gli accertamenti preliminari, ipotizzava che “la motonave trasportava verosimilmente rifiuti tossici e/o radioattivi e che il naufragio della nave era staio cagionato volontariamente per smaltire i rifiuti chimici e per frodare la compagnia di assicurazione”.
Eppure, questa lunga e complessa inchiesta si è conclusa nel maggio 2009 con l’archiviazione e tanti dubbi rimasti su quella spiaggia di Amantea. Anche nella stessa richiesta di archiviazione il procuratore Greco parla degli elementi che “disegnano un quadro nebuloso che gli accertamenti effettuati non hanno chiarito”.
Dubbi che, purtroppo, nel corso del tempo sono stati alimentati da varie testimonianze. Strani fusti ritrovati sulla spiaggia o durante sessioni di pesca subacquea, preoccupanti valutazioni sanitarie della zona.
Un’indagine del WWF e del comitato Civico Natale de Grazia, conferma “un eccesso statisticamente significativo di mortalità nell’area del distretto sanitario di Amantea rispetto al restante territorio regionale, dal 1992 al 2001, in particolare nei comuni di Serra d’Aiello, Amantea, Cleto e Malito”. Quella indicata è l’area lungo il corso del Fiume Oliva, dove le indagini avevano rilevato sostanze tossico- nocive, le stesse già evidenziate nell’indagine della Procura di Paola sulla Jolly Rosso. Questa indagine, ripresa dall’Arpacal, l’Agenzia ambientale della regione Calabria e dei Vigili del fuoco, fa riferimento specialmente al Cesio 137 (radioattivo) e alla possibile correlazione con l’aumento di malattie tumorali e l’eccesso di mortalità registrati nell’area. Secondo Legambiente, infatti, una delle discariche contiene residui nucleari non naturali che provocano un aumento del suolo di circa sei gradi.
Ma prima di arrivare a queste consapevolezze, perché tutte queste coincidenze hanno insospettito investigatori e abitanti locali? Per capriolo dobbiamo considerare il contesto storico e il passato della Jolly Rosso.
Dagli anni '70, dopo il boom economico degli anni '50 e '60 e senza una legge sui rifiuti industriali e tossici, l'Italia si è trovata a chiedersi: dove mettiamo tutti questi rifiuti pericolosi? La risposta spesso è stata: portiamoli dove nessuno se ne accorge. Fenomeno che prende il nome di dumping ambientale e che consiste nello spostamento di rifiuti, da un paese ad un altro, dove le norme ambientali sono meno severe e i costi ridotti. Quindi: Somalia, Guinea, Mozambico, Libano, per dirne alcuni.
Solo che negli anni ‘80 ci furono delle grandissime proteste ambientaliste che spinsero le Nazioni Unite e i Paesi che avevano messo in atto queste dinamiche a riprendersi i rifiuti. Tra questi chiaramente c’è anche l’Italia, che incarica diverse imbarcazioni di recuperare questi rifiuti: tra queste ci sono la Zanoobia, La Keren B, la Jolly Rosso.
Una volta recuperati da questi Paesi, il problema non è comunque risolto, perché non si sa dove mettere questi rifiuti pericolosi. Molti documenti vedono alcune di queste imbarcazioni girare moltissimi porti prima di tornare in Italia. O, in moltissimi casi, prendere una strada ancora più astuta nella sua essenza criminale: diventare una “nave a perdere”; ovvero navi affondate volutamente insieme al carico velenoso che trasportavano, così da liberarsi dei rifiuti tossici e truffare l’assicurazione in un colpo solo.
Nello stesso periodo in cui La Direzione investigativa antimafia, in un documento del 2001, accerta che dal 1995 al 2000 sono scomparse nei mari del mondo ben 637 navi, di cui 52 nel Mediterraneo (intrecciando altre fonti Legambiente è arrivata a contarne 88). Ed è anche il periodo in cui la società Odm, la stessa dei documenti che abbiamo visto prima, pubblicizza e propone a diversi Paesi la possibilità di smaltire scorie nucleari attraverso dei siluri da sparare nelle profondità marine. Certezze sul fatto che questo piano sia stato effettivamente messo in atto, però, non ce ne sono. Ed è proprio indagando su questi dubbi e sul loro intreccio ai traffici di armi, che sono stati uccisi nel ‘94 la la giornalista RAI Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin.
La Jolly Rosso venne noleggiata dallo Stato Italiano per andare riprendere le oltre 2 tonnellate di rifiuti tossici che l’Italia nell’87 aveva scaricato nel porto di Beirut, in Libano, dalla nave Radhost. Poi era stata ferma fino all’89 nel porto di La Spezia, da dove è ripartita l’anno successivo alla volta di Malta, con sosta a Napoli. È nel viaggio di ritorno che, nello stretto di Messina, il comandante decide di non fermarsi durante una tempesta (come fatto da altre navi, stando a testimonianze da membri dell’equipaggio). Decisione per cui riceverà un’accusa (poi archiviata) per naufragio.
Secondo alcuni membri la Jolly Rosso in un primo momento non sarebbe nemmeno dovuta partire da La Spezia, viste le condizioni di ruggine presenti all’interno. In più il “carico” e il via vai di container pieni e vuoti nei due porti da cui è passata non avrebbero giustificato il viaggio. Tutto fa pensare che anche la Rosso dovesse essere una nave a perdere.
I documenti desecretati del Sismi (Servizio per le informazioni e la sicurezza militare) parlano di ben 90 imbarcazioni affondate nel mediterraneo tra il 1989 e il 1995: di alcune è stato addirittura accertato in tre gradi di giudizio l’affondamento fraudolento. La Rigel, per esempio, affondata in provincia di Reggio Calabria (a largo di Capo Spartivento) in un punto che si conosce perfettamente, ma nessuno ha provato a recuperare il relitto. Nel 2003 il collaboratore di giustizia (ex ‘ndranghetista) Francesco Fonti, ha dato anche le coordinate di tre navi «cariche di bidoni radioattivi» affondate al largo di Cetraro, con la collaborazione, come da lui stesso dichiarato, di un’altra famiglia mafiosa della zona.
Fatto sta che fino a questo momento non è mai stato recuperato nessuno di questi relitti, molte delle inchieste sono finite con l’archiviazione e molti dei territori non sono ancora stati bonificati. Eppure attorno a questa vicenda ruota la salute dell’ambiente, delle persone, la vita di chi ha perso la sua per far emergere la verità su quanto accaduto.
Decine di documenti, commissioni d’inchiesta, testimonianze, ma quello delle navi dei veleni rimane un mistero ambientale, sanitario e politico irrisolto.