La storia di Emma: affetta da atassia di Friedreich frequenta l’Università per aiutare la ricerca

A 12 anni le hanno diagnosticato una malattia rara, chiamata atassia di Friedreich, e oggi frequenta l’Università per poter un giorno portare il suo contributo nella ricerca di una cura per le malattie ancora orfane. In occasione della Giornata mondiale delle malattie rare, Emma della Libera racconta la sua storia.
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Sara Del Dot 28 Febbraio 2019

Emma della Libera ha 21 anni, è originaria di Vascon di Carbonera in provincia di Treviso e  attualmente frequenta l’Università di Trento, dove si è trasferita. Vive in uno studentato, ha una coinquilina e ogni giorno prende l’autobus per andare a seguire le lezioni e i laboratori. Il motivo per cui due anni fa si è iscritta proprio a questa facoltà, Scienze e Tecnologie biomolecolari, non è solo il fatto che questo mondo la affascina. Da tutta la vita, infatti, Emma convive con una rara malattia genetica che ha progressivamente colpito il suo corpo in maniera sempre più accentuata. Si chiama atassia di Friedreich, colpisce circa una persona su 25.000 e al momento è senza cura. Uno dei motivi per cui Emma ha deciso di acquisire le competenze per capirci qualcosa in più.

“La diagnosi mi è stata comunicata quando avevo 12 anni, ma era da quando ne avevo 8 che sentivo che alcune cose all’interno del mio corpo non erano a posto. A scuola facevo fatica a seguire gli altri nei dettati e nella scrittura in generale, avevo grandi difficoltà a fare linee dritte, a sottolineare, cadevo spesso senza muovermi chissà quanto, alcune volte addirittura da ferma. Tuttavia, finché tutti i sintomi restavano in un certo intervallo di normalità i pediatri rassicuravano i miei genitori, dicendo loro che ero solo un po’ goffa, un po’ imbranata. Il sospetto che fosse qualcosa di più si è rafforzato in me quando ho iniziato pianoforte. Mentre suonavo, la mano sinistra andava per i fatti suoi. Ero molto piccola allora, ma avevo già capito che non era normale che una mano non rispondesse ai miei comandi.”

Nonostante i sintomi siano ormai più che evidenti, i medici a cui la famiglia di Emma si rivolge continuano a sottovalutare la cosa. Fino a che, ormai alle medie, un professore non interviene, facendo notare la gravità della situazione.

“Durante le lezioni di atletica, tra i vari esercizi da fare c’era anche la trave di equilibrio. Ovviamente, non tutti erano degli atleti. C’era chi riusciva a farla tutta, chi sbandava un po’, chi cadeva dopo due passi. Io non riuscivo nemmeno a salirci sopra. Così il mio professore ha convocato i miei genitori e ha segnalato loro che c’era qualcosa che non stava funzionando, avevo un grosso problema di coordinazione e di equilibrio.”

A quel punto inizia il giro di ospedali e specialisti, ed Emma si sottopone a decine di esami tra prelievi, risonanze, tac.. Prova anche a indossare busti e plantari, su consiglio di un ortopedico. A un certo punto, finalmente, arriva la diagnosi. Emma ha 12 anni. E l’atassia di Friedreich.

“Ho fatto un test neurologico per misurare la velocità degli impulsi nervosi. Il risultato, unito agli altri sintomi, riconduceva quasi esclusivamente a questa patologia. Un successivo test del Dna ha confermato la diagnosi e mi è stato comunicato che ero affetta da atassia di Friedreich, una malattia rara neurodegenerativa orfana di cure. In quel momento ho provato una sensazione quasi di sollievo. Sicuramente ancora non potevo comprendere l’entità del problema, ma il fatto di poter almeno dare un nome a questi problemi, poter almeno rispondere ai miei compagni che mi prendevano in giro, un po’ mi faceva stare meglio.”

L’atassia di Friedreich è una patologia genetica recessiva, dovuta a una malformazione di un gene presente nel Dna. Questo gene produce una proteina, chiamata fratassina, che ha la funzione di pulire le cellule, ed è particolarmente attiva nei neuroni, in cui si occupa di rimuovere i metalli pesanti, soprattutto il ferro. I malati di atassia di Friedreich non riescono a produrre questa proteina in quantità sufficiente, di conseguenza il ferro si accumula nei mitocondri e la quantità diventa insopportabile per la cellula, che muore. Questa lenta morte cellulare porta quindi alla progressiva perdita di abilità, e quindi al peggioramento di tutti i parametri controllati dal sistema nervoso, parametri che riguardano tutto il corpo. I sintomi da subito evidenti sono la perdita di equilibrio, coordinazione e precisione. Poi si passa anche a difficoltà nella parola, nella deglutizione, nella respirazione e infine al battito cardiaco.

L’atassia di Friedreich è una malattia genetica. Ma sebbene sia rara, i portatori del gene che la provoca sono tantissimi al mondo, circa uno ogni 35 persone. Questi portatori hanno dentro di sé una copia funzionale di questo gene, ma anche una copia distorta. La malattia viene trasmessa esclusivamente quando un bambino, figlio di due portatori “sani”, eredita da entrambi i genitori la loro copia “sbagliata”. Non sempre ciò accade. A Emma è successo.

A differenza di tante altre persone, Emma e i suoi genitori decidono di non restare con le mani in mano, e appena pochi mesi dopo la sua diagnosi, nel 2010, fondano l’associazione Ogni giorno per Emma Onlus, in cui, spiega, “raccogliamo soldi per la ricerca, che non è abbastanza finanziata e incentivata. Servono fondi per migliorare la diagnostica, per implementare i percorsi di fisioterapia mirata e per tanto altro.”

E il suo percorso non si ferma qui: dopo il liceo, infatti, Emma sceglie di compiere un passo ulteriore, approcciandosi direttamente alla ricerca. Infatti, desidera capire di più di tutto questo, è stanca di ascoltare medici che utilizzano termini che lei e i suoi genitori (ma anche altre figure interessate come ad esempio i finanziatori) faticano a comprendere, di non riuscire a confrontarsi, di dover soltanto annuire quando vengono proposti studi, terapie o nuove strategie da testare.

“Il corpo umano, le cellule, l’organismo, funzionano in modo molto complesso, altrimenti non servirebbero anni di studi per capirli.”

Quindi, nonostante i limiti e le difficoltà che la vita le impone, decide di unire passione, interesse personale e l’attività dell’associazione, lasciando il suo piccolo paese nel trevigiano e iscrivendosi all’Università di Trento per studiare Scienze e Tecnologie biomolecolari al Cibio, Centre for integrative biology.

“L’ho fatto perché volevo quanto meno essere in grado di fare delle domande, esporre i miei dubbi, le mie argomentazioni e capire come si sarebbe evoluta la cosa. Prima di fare questo passo non potevo chiedere, non potevo rispondere a nulla di ciò che i medici mi dicevano. Ora finalmente è tutto diverso, anche perché alcuni progetti li abbiamo portati avanti proprio con l’Università di Trento.”

Progetti come ad esempio la campagna di raccolta fondi lanciata un anno fa dall’ateneo per un correttore genomico che aiuti a trovare una cura alla malattia di Emma e non solo. Campagna che in breve tempo ha raggiunto 753.000 euro di donazioni, grazie anche al contributo di Gino del Bon, imprenditore milanese la cui nipote è affetta dalla rara Sindrome di Cornelia de Lange, e di Ogni giorno per Emma che, assieme all’associazione “Per il sorriso di Ilaria Montebruno” ha raccolto 345.000 euro per la ricerca di un editing genomico specifica per l’atassia di Friedreich.

Oggi, quindi, Emma frequenta il secondo anno, trascorre molto tempo in laboratorio e può contare sull’appoggio dell’Università e delle tantissime persone che le stanno attorno e le vogliono bene, primi tra tutti i suoi genitori.

“Loro sono contenti, dicono che sono coraggiosa e testarda, perché quella che ho fatto è stata una scelta estrema. È un po’ come se un cieco scegliesse di fare l’accademia delle Belle Arti. È difficile concepire che una persona con grossi problemi di coordinazione e precisione vada a fare attività di laboratorio, che è per definizione il luogo in cui queste abilità servono di più. Ma quello che si fa nel laboratorio è un lavoro di squadra, e quindi magari io mi occupo di calcoli, misura, propagazione degli errori, gestione del protocollo… C’è tutto un mondo, qui, in cui sapevo che avrei potuto fare una parte importante, facendo emergere le mie capacità, cosa che comunque non è affatto facile. Perché quando ti manca qualcosa, devi brillare ancora di più per far sì che gli altri ti vedano”.

Inoltre, da quando si è trasferita a Trento, Emma ha iniziato per la prima volta a vivere da sola, o meglio con una coinquilina, riequilibrando la propria quotidianità e creando nuove abitudini.

“Da un anno vivo in uno studentato in centro, con una coinquilina. Prima d’ora io ero sempre stata a casa, vivevo in campagna, e quando sono cresciuta e la malattia ha iniziato a farsi sentire non potevo più muovermi liberamente. Non avevo mai preso un mezzo pubblico, avevo sempre i miei genitori che mi portavano dove dovevo andare e tornavano a prendermi. Ora vivo assieme ad altri ragazzi, prendo mezzi pubblici che sono sempre accessibili a persone con disabilità, il mio alloggio è comodo. Naturalmente faccio fatica, impiego il quintuplo degli altri a fare le cose, però fino ad ora sono sempre riuscita a fare tutto. A volte, per i disabili, le maggiori difficoltà nascono proprio dalle convenzioni sociali. Perché le persone attorno a te ti dicono a che ora devi mangiare e quante volte, quando ti devi cambiare, quando devi fare tutto. Ma se una volta non riesco a organizzarmi con qualcuno e salto il pranzo, non è la fine del mondo. Per me, solo il fatto di poter gestire in autonomia molti aspetti della mia vita è di una bellezza indescrivibile.”

Un percorso, quello di Emma, lungo e complicato, ma che sicuramente porterà a qualche risultato. Grazie a lei, al suo coraggio e alla sua voglia di capire cosa le accade intorno e di non rallentare davanti agli ostacoli. Anche se si tratta di malattie senza ancora una cura.

“Il mio interesse è quello di riuscire a far stare un po’ meglio le persone che hanno questa malattia. Perché non avere nulla che blocchi o per lo meno rallenti la sua progressione, è bruttissimo. Spero davvero che si riesca a trovare qualcosa, non dico per tornare sani, ma almeno frenare la progressione. Vorrei che tutto questo potesse dare una speranza a queste persone, perché spesso vengono colpiti ragazzi che ricevono la diagnosi a 10 o 12 anni e iniziano a stare molto male già dall’adolescenza, che è proprio il periodo peggiore. Vorrei poter arrivare a un risultato che consenta loro per lo meno di vivere una vita serena. So bene che è si tratta di una malattia rara, ma io di questi ragazzi ne conosco tanti, e quando inizi a parlare con dieci, venti, trenta persone pensi che sono tutte persone che stanno soffrendo molto ed è giusto che possano almeno sperare. Per se stessi, per le loro famiglie, per i loro amici. Io ci credo. Perché studiare una malattia poco conosciuta e non ancora del tutto definita è, per la ricerca medica, una fonte di informazione pazzesca. Quindi, affrontare un tema come questo è una fonte di informazione e di potenziale progresso per tutti.”