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Lavorare per vivere o vivere per lavorare? Attenzione ai rischi per la salute mentale

Nel lavoro investiamo buona parte delle nostre energie e del nostro tempo. Ecco perché vivere in modo sano l’ambiente lavorativo è fondamentale per la nostra salute mentale. Eppure, tra mancanza di gratificazione e rischio burnout, le dinamiche che possono metterla a rischio sono molte: i consigli dell’esperto per imparare a riconoscerle e “aggiustare il tiro”.
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Rubrica a cura di Maria Teresa Gasbarrone
7 Giugno 2023
In collaborazione con il Dott. Christian Colautti Psicologo del lavoro e psicoterapeuta

"Il lavoro nobilita l'uomo", recita un antichissimo detto. Vero, ma non sempre e, soprattutto, non a tutte le condizioni. Quanto il lavoro possa o meno contribuire alla nostra serenità lo dicono i numeri: una persona dedica al proprio impiego in media tra le sette e le otto ore al giorno, ovvero circa la metà delle ore disponibili in una giornata, tolte quelle in cui dormiamo.

Ecco perché in una riflessione sul benessere psicologico non si può non approfondire quali sono le dinamiche che si innescano sul luogo del lavoro, dalla mancanza di gratificazione al sovraccarico di mansioni, fino alla sindrome del burnout, che oggi, complice anche il superamento del confine lavoro-vita privata, è sempre più comune.

Ristabilire i confini

"Oggi il concetto di confine è diventato estremamente labile e distinguere il lavoro dalla vita privata è a volte praticamente impossibile". Christian Colautti, psicologo del lavoro e psicoterapeuta parte da quello che è nella sua esperienza uno dei danni maggiori che il lavoro può arrecare alla salute mentale.

Quello che internet e la digitalizzazione aveva iniziato, la pandemia ha reso strutturale: la smaterializzazione del luogo di lavoro. Grazie a (o per colpa di) lo sviluppo delle piattaforme di telelavoro, praticamente oggi – almeno per quanto riguarda i cosiddetti "lavori d'ufficio" – i concetti di orario e di luogo di lavoro sono molto meno rigidi di come non fossero in passato.

Ma se poter lavorare ovunque e a qualunque orario ha portato alcuni benefici – con le giuste tutele lo smart working può essere uno strumento vantaggioso per lavoratori e aziende -, questa fluidità ha fatto sì che il lavoro potesse essere onnipresente nella nostra vita. Telefonate, email, progetti da concludere a casa: praticamente si potrebbe non staccare mai, con buona pace dei confini e del rispetto della vita privata.

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In un sondaggio sulla pagina Instagram di Ohga, alla domanda "Cosa ti ha spinto a pensare di cambiare lavoro?", una delle risposte più gettonate (33%) è stata "Non mi permette di dedicarmi alla mia vita", a pari merito con "Non sono soddisfatto dello stipendio". Questo dimostra che stiamo parlando di un problema tutt'altro che circoscritto.

"Non esistendo più reali confini tra il lavoro e gli altri spazi della vita – spiega Colautti -, siamo costretti a vivere costantemente sotto stress, in un continuo stato di allerta. Ma questo non è sano: il cervello umano è per natura abituato a reagire ai ‘pericoli' in modo puntuale, l'allarme non può diventare la normalità. Quando siamo in allerta il nostro corpo lo riconosce – lo dimostra ad esempio l'aumento del cortisolo – ma trasformare questo stato di ‘eccezionalità' nella regola rappresenta un fattore di rischio per la nostra salute".

"Non esistendo più reali confini tra il lavoro e gli altri spazi della vita, siamo costretti a vivere costantemente sotto stress, in un continuo stato di allerta".

Christian Colautti, psicoterapeuta 

Rischio burnout

Saper ripristinare i giusti confini è quindi necessario per preservare la nostra salute mentale, ma anche per evitare il rischio di burnout. Quest'ultimo viene infatti riconosciuto dall'Oms, che lo definisce proprio come "uno stato di stress cronico lavoro-correlato caratterizzato dalla sensazione di completo esaurimento delle proprie energie fisiche e mentali".

In termini specialistici, esistono infatti due tipi di stress: l'eustress e il distress. Il primo consiste in un’attivazione fisiologica e psichica che attuiamo in situazioni di emergenza che ci consente di dare il meglio di noi per il raggiungimento di un obiettivo. Il distress è invece una forma di stress prolungato, acuto e costante, che comporta una sofferenza psico-fisica. Questa più tradursi in paura, ansia, insicurezza, timore di perdere il controllo di noi e di ciò che ci circonda e con sintomi somatici.

Il lavoro non è tutto

Sembra una banalità, ma non lo è affatto. Nella consapevolezza che ogni caso è a sé e ognuno sceglie i propri obiettivi e le proprie priorità, una certezza resta: puntare tutto su un'unica carta implica un tasso di rischio davvero alto.

Questo vale nel gioco d'azzardo, come nella vita reale. E non solo per il lavoro: "Il monoinvestimento è una scelta rischiosa – spiega lo psicologo – perché nel momento in cui qualcosa si incrina in quell'ambito della vita in cui abbiamo investito tutte le nostre energie, non abbiamo altri ambiti in cui ritrovare la nostra dimensione. Questo vale per le relazioni, come per il lavoro".

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Ecco perché potrebbe tornare utile coltivare le tante dimensioni che costituiscono la personalità di una persona: le relazioni umane, le passioni extralavorative, lo sport e qualsiasi altra attività possa contribuire alla soddisfazione personale di ciascuno di noi.

Basta un buono stipendio?

Anche se lo stipendio è di certo uno dei fattori che pesano di più nella scelta di un lavoro, a volte – escluse ovviamente i casi di salari così bassi da compromettere la tranquillità economica – quanto un lavoratore guadagna non basta a renderlo felice del suo lavoro. "Gratificazione – spiega Colautti – non sempre coincide con remunerazione. Ma attenzione a identificare il lavoratore medio nel prototipo del manager in giro per il mondo, ci sono milioni di persone che svolgono lavori meno ambiziosi, ma non per questo meno meritevoli di sentirsi gratificati".

"In questi casi – prosegue l'esperto – la gratificazione può consistere nell'avere gli strumenti per svolgere bene le proprie mansioni, senza essere sovraccaricato, in un "bravo/a" da parte del capo, ma anche nella possibilità di chiedere un permesso senza problemi, di vedersi riconosciuti i diritti lavorativi basici".

Emozioni e sguardo critico

Cosa fare allora se non siamo più soddisfatti del nostro lavoro? Questa è una domanda che forse ogni persona è destinata a porsi almeno una volta nella vita. La prima cosa da specificare è che ogni caso è a sé e le variabili sono molte, prima tra tutte la possibilità di "correre il rischio" e cercare un nuovo lavoro.

Ma anche qualora questa sia una strada percorribile, prima di prendere una decisione così drastica ci sono diversi step possibili. "Per prima cosa – specifica Colautti – tutte le emozioni sono legittime. Quindi nel momento in cui avvertiamo insoddisfazione o, comunque, malasse, sul luogo di lavoro, far finta che queste emozioni non esistono non solo è inutile, ma perfino rischioso per il nostro equilibrio".

Cosa fare

Quindi, dopo aver accettato che "tirare avanti" non può essere una soluzione sostenibile sul lungo tempo, il consiglio dell'esperto è provare a guardarsi dentro e capire quali siano davvero le cause dell'insoddisfazione provata. A volte questo percorso non è affatto semplice e ricorrere alla guida di uno specialista, come uno psicoterapeuta o uno psicologo, può essere d'aiuto.

"Il rischio è quello di licenziarsi, convinti che sia quel lavoro la causa della nostra infelicità, per poi trovarci a stare comunque male, perché le ragioni profonde erano altre", avverte Colautti.

Fatto questo lavoro, in alcuni casi si può provare ad analizzare se ci sono "margini di operabilità". Anche questa però non è una strada priva di ostacoli, interni ed esterni. "Si può provare a parlare con il proprio responsabile e mostrare le proprie perplessità, ovviamente in modo professionale e non dando scontato che sia risolutivo".

"Capita di doversi scontrare con il fatto di dover rinunciare a una certa di lavoro che ci si era prefigurato negli anni. In quel caso si affronta una sorta di lutto".

Christian Colautti

Non tutte le storie infatti hanno il lieto fine: "Alcune volte ancora capita di doversi scontrare con il fatto di dover rinunciare a una certa di lavoro che ci si era prefigurato negli anni. Non significa che si è condannati all'infelicità, ma anche in quel caso è necessario fare un lavoro su stessi, perché si tratta di elaborare quello che in sostanza è una sorta di lutto". Ma non è detto che il lieto fine che ci eravamo prefissati fosse davvero quello giusto per noi.

Fonti | Humanitas; Ospedale Maria Luigia

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Dopo la laurea in Editoria e scrittura all’Università di Roma La Sapienza sono approdata a Milano per fare della passione per altro…