Carriera, successo e benessere (soprattutto economico). È da decenni ormai che la società occidentale si ispira a un modello di vita improntato a questi valori, tutti da raggiungere nel minor tempo possibile. A forza di rincorrere obiettivi – che non sappiamo nemmeno di aver scelto noi – può capitare però di "sentirsi indietro", nella vita professionale o in quella relazionale.
Soprattutto tra i più giovani il modello del successo e della competitività sta perdendo il suo appeal, al contrario i ragazzi sembrano i primi a volersi distaccare da questi valori, troppo spesso ancora associati a emozioni negative. A volte infatti la paura di non raggiungere certi obiettivi innesca un sentimento di angoscia, che può trasformarsi in ansia e malessere.
Se è vero infatti che la società continua a mettere il successo professionale al primo posto, paradossalmente non fornisce gli strumenti per raggiungerlo. Il risultato è una trappola, un circuito chiuso, in cui rincorriamo miraggi che finiscono per trasformarsi in incubi.
Facciamo una premessa: porsi un obiettivo non è sbagliato in senso assoluto, ma può diventare fonte di frustrazione quando le motivazioni con cui ci si prefigge di raggiungerlo non sono quelle giuste. "Lo stimolo all'impegno – spiega la psicologa Francesca Rendine – può trasformarsi in angoscia e in ultimo in malessere psicologico per la presenza di alcuni fattori predisponenti sia personali, sia di ordine psicosociale".
Il valore di una persona non coincide con il suo successo, né con le sue performance lavorative o scolastiche.
Francesca Rendine, psicologa
Tra i fattori predisponenti personali, l'esperta fa rientrare "la scarsa consapevolezza di sé, intesa come conoscenza delle proprie attitudini ma anche dei propri limiti, la tendenza a sovrapporre il valore di sé come persona con il successo scolastico e/o professionale e la scarsa tolleranza al fallimento come parte di un percorso del tutto "fisiologico" e quindi normale".
Sulle necessità di rovesciare la logica del successo è sempre più diffusa la consapevolezza tra i giovani. "Siamo schiacciati da una cultura della performatività, da un sistema che ci spinge ad essere sempre più di qualcun altro", scrivono sui social i fondatori di "Chiedimi.come.sto", progetto nato per iniziativa dell'Unione degli universitari (Udu) e Rete degli studenti medi con l'obiettivo di indagare la salute mentale dei ragazzi.
"Solo se capiremo, un giorno, che ogni persona vive il proprio percorso professionale e di vita a modo proprio, che ogni traguardo, piccolo o grande che sia, ha un valore personale differente per ognuno, allora avremo realmente superato la logica della performatività", si legge ancora nel post.
Eppure questa consapevolezza non è sempre così facile da raggiungere, soprattutto se il contesto sociale continua a procedere nella direzione opposta. È in questo momento che entrano in gioco le cause esterne, quella che Rendine definisce "fattori di ordine psicosociale".
Fattori di rischio per sviluppare la sensazione angosciosa di sentirsi indietro sono infatti anche "lo svantaggio socio-culturale e quello economico inteso come una carente o scarsa possibilità di accesso al mondo sociale e lavorativo".
Anche se finora abbiamo parlato del problema in relazione ai giovani, "non legherei questa sensazione – spiega la psicologa – a una "fase di vita", bensì alle singole storie di vita delle persone. Tutti potremmo sentirci "in ritardo" a qualsiasi età, in relazione a qualcosa che non abbiamo ancora raggiunto e che magari desideravamo molto".
Quando questa sensazione si trasforma in una fonte d'ansia, diventa però necessario approfondire le cause. Tuttavia, se è vero che alcune di queste dipendono dalla storia del singolo, altre sono strettamente legate al contesto storico-sociale.
La società da una parte costringe i giovani a iper-specializzarsi, dall'altra li obbliga a vivere in un contesto lavorativo precario dove la loro formazione non è quasi mai davvero spendibile.
Francesca Rendinee
Nello specifico non si può negare che oggi questo problema sia più presente che in passato. I ragazzi e i giovani adulti di oggi si trovano a fare i conti con un presente difficile su cui pesa il paradosso di cui parlavamo all'inizio. Questo aspetto non può essere negato: "Attualmente viviamo una crisi economica che si protrae da diverso tempo e che ha determinato uno scenario lavorativo poco confortante, dominato da precarietà, disoccupazione e "lavoro" non retribuito. Al polo opposto continuiamo ad avere una richiesta costante di iperspecializzazione, che però si rivela non spendibile nella realtà".
L'insieme di queste due condizioni può quindi contribuire a creare un senso di frustrazione e impotenza, a sua volta alla base del possibile insorgere di problemi d'ansia.
Fermo restando l'esistenza di un contesto socio-economico complicato, "ricercare – spiega Rendine – le responsabilità unicamente in un "fattore x" è l'errore di valutazione che si è fatto e si continua a fare".
Facciamo un esempio concreto: giustificare questa condizione di malessere e paura di essere in ritardo, non solo nel lavoro, ma anche nella costruzione di una famiglia o nell'acquisto di una casa, utilizzando come unica motivazione la crisi economica rischia di tralasciare altri elementi della società che invece sono determinanti.
"Molto spesso si parla per etichette del mondo giovanile – i cosiddetti "bamboccioni" -, ma dietro questi sterili giudizi si nasconde una scorretta deresponsabilizzazione del sistema che non offre in alcun modo accesso al mondo del lavoro, o se lo offre, si tratta per lo più di "possibilità lavorative" di facciata che non garantiscono il sostentamento della persona, l'accesso all'istruzione e alle cure. Si fa presto a dire che i "soldi non fanno la felicità!", ma la realtà, per quanto mistificata nella comunicazione, è un'altra".
Ecco perché – prosegue l'esperta – oggi più che mai avremmo bisogno di "un'azione politica che pensi concretamente a combattere la disoccupazione piuttosto che a trovare etichette e a dividere il mondo tra buoni e cattivi".
Se hai provato o provi tutt'ora questa sensazione trovare il modo di uscirne e "non sentirti più indietro" non è affatto semplice, ma nemmeno impossibile.
Un primo spunto di riflessione puoi trovarlo nelle parole stesse della psicologa: "Il tuo valore come persona non coincide con il tuo successo o le tue prestazioni scolastiche e/o lavorative".
Inoltre continuare a perseguire modelli di vita appartenenti al passato è controproducente, oltre che inutile. La differenza può farla il tuo grado di consapevolezza: del tuo percorso, dei tuoi reali obiettivi, ma anche dei tuoi limiti, che non solo un motivo di demerito, ma un aspetto della tua personalità.
Ovviamente va specificato che "sentirsi scoraggiati e stanchi – conclude l'esperta – è del tutto fisiologico dinanzi alle avversità, ma le cose cambiano quando queste sensazioni diventano prolungate, in grado di cambiare il nostro umore ed ostacolanti nel nostro vivere quotidiano". Se ci si trova in quesa condizione rivolgersi a un professionista può essere d'aiuto ad acquisire consapevolezza del proprio valore e dei propri obiettivi, forse il più efficace antidoto contro la paura di "rimanere indietro".