Lo studio italiano che potrebbe inaugurare una nuova era nel trattamento della leucemia linfoblastica Ph+

Il nuovo approccio unisce un inibitore delle tirosin chinasi e un anticorpo monoclonale, ma soprattutto permette di evitare la chemioterapia nelle prime fasi. Migliora quindi notevolmente la qualità di vita dei pazienti, un’ottima novità soprattutto per i malati più anziani.
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Rubrica a cura di Giulia Dallagiovanna
27 Febbraio 2021
Intervista al Dott. Nicola Fracchiolla Dirigente dell'Unità operativa complessa di Ematologia presso la Fondazione IRCCS Cà Granda-Ospedale Maggiore Policlinico di Milano

"Una nuova era nel trattamento della leucemia linfoblastica acuta?". È il titolo di un editoriale comparso sul New England Journal of Medicine il 22 ottobre 2020. L'autore era il professor Dieter Hoelzer, uno dei massimi esperti di questa patologia, ma il riferimento era a uno studio italiano condotto dall'Ematologia dell'Università La Sapienza di Roma per conto di Fondazione GIMEMA (Gruppo Italiano Malattie EMatologiche dell’Adulto) e pubblicato sullo stesso numero della rivista. Così, nel marasma provocato dalla seconda ondata di Covid, ci siamo persi una novità importantissima per tutti i pazienti affetti da leucemia linfoblastica Philadelphia positiva: un trattamento che permette di eliminare la chemioterapia, almeno nelle prime fasi (il primo ciclo di cure). Allo studio, ideato e coordinato dal professor Robin Foà e dalla professoressa Sabina Chiaretti, ha partecipato, insieme a molti altri importanti centri di Ematologia italiani, anche il Policlinico di Milano.

"Questa forma di leucemia linfoblastica presenta una fusione tra i cromosomi 9 e 22 – ci ha spiegato il dottor Nicola Fracchiolla, dirigente dell'Unità operativa complessa di Ematologia presso la Fondazione IRCCS Cà Granda-Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. – Questa particolarità genera una proteina nuova, chimerica, chiamata bcr/abl, che rappresenta una bersaglio molecolare, per il quale stiamo già da anni impiegando farmaci a somministrazione orale, usati anche contro la leucemia mieloide cronica con alterazioni analoghe. In questo studio è stato utilizzato il dasatinib, un inibitore delle tirosin chinasi di seconda generazione, in grado di ‘spegnere' la fornace energetica che alimenta la malattia".

Ma l'innovazione sta nell'introduzione del blinatumomab, un anticorpo monoclonale bispecifico, che viene utilizzato anche per il trattamento della leucemia linfoblastica acuta Ph negativa. In questo studio, però, si elimina la combinazione con la chemioterapia nelle fasi iniziali. "Il blinatumomab mette in contatto la cellula tumorale con il sistema immunitario del paziente e questo fa sì che le difese proprie dell'organismo entrino in funzione: vedono la cellula lecuemica, la bloccano e la uccidono. Immaginiamo un guerriero che con un braccio aggancia la cellula maligna attraverso la proteina CD19, con il secondo invece una cellula del sistema immunitario per mezzo della proteina CD3. L'anticorpo monoclonale mette fisicamente in connessione il killer naturale e il suo nemico e ne permette l'eliminazione", aggiunge il dottor Fracchiolla.

Il nuovo approccio ha permesso di ottenere una sopravvivenza globale del 95% e dell'88% libera da malattia

L'idea del gruppo di ricerca è stata proprio quella di unire i due approcci, e dunque combinare l'inibitore delle tirosin chinasi e il farmaco immunoterapico. Una formula assolutamente innovativa, che non era mai stata utilizzata per il trattamento delle leucemie Ph positive. "I pazienti arruolati nello studio erano 63 e i risultati sono stati molto promettenti", commenta il dottor Fracchiolla. Il nuovo approccio infatti ha permesso di ottenere una sopravvivenza globale del 95% e una sopravvivenza libera di malattia dell'88%, a 18 mesi dalla diagnosi. "Naturalmente ora sono necessari ulteriori studi per confermare i risultati della sperimentazione, ma i dati raccolti fin qui lasciano ben sperare. Un nuovo studio GIMEMA è già in programmazione e speriamo con i risultati ottenuti di permettere nel prossimo futuro l'entrata di questo approccio nella pratica clinica".

E non sono questi gli unici vantaggi. Eliminando la chemioterapia, almeno nella prima fase, si riducono notevolmente anche tossicità ed effetti collaterali delle cure, con un considerevole miglioramento della qualità di vita dei pazienti. Un discorso che diventa ancora più importante per i malati più anziani, che mostrano maggiori difficoltà rispetto alle altre possibilità di trattamento esistenti oggi. "La combinazione tra i due farmaci è ben tollerata, anche in pazienti con età avanzata – conferma Nicola Fracchiolla – che di solito non riescono ad affrontare la chemioterapia senza effetti collaterali importanti. Poter aggiungere anche in questi casi all'inibitore di tirosin chinasi un immunoterapico così potente, permette di sperare in una remissione duratura della malattia, se non addirittura nell'assenza di recidive, ovvero nella guarigione".

Fonte| "Dasatinib–Blinatumomab for Ph-Positive Acute Lymphoblastic Leukemia in Adults" pubblicato sul New England Journal of Medicine il 22 ottobre 2020

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Sono Laureata in Lingue e letterature straniere e ho frequentato la Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. Mi occupo principalmente altro…