Perché ospitare un bambino di Chernobyl: fa bene a lui e a te. L’esperienza di Francesca

Abbiamo incontrato Francesca, nella vita insegnante di un asilo nido della provincia di Monza. Per due anni consecutivi “mamma ospitante” di un bambino della Bielorussia, tramite un’associazione che si occupa di accogliere in Italia bambini delle regioni colpite dal disastro di Chernobyl.
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Gaia Cortese 1 Agosto 2019
* ultima modifica il 26/07/2022

Viene chiamato risanamento terapeutico, e non si tratta di altro che di quattro, cinque settimane lontano da quei luoghi interessati dal disastro nucleare di Chernobyl, avvenuto il 26 aprile 1986. All'epoca avevo 10 anni, suppergiù l'età che hanno i bambini provenienti dall'Ucraina e dalla Bielorussia che in questi anni hanno l'opportunità di trascorrere del tempo in Italia per abbassare il livello di cesio nel loro organismo.

Il cesio 137 è una delle sostanze radioattive fuoriuscite dal reattore della centrale nucleare nel 1986. Viene assimilato dall'organismo attraverso l’alimentazione in dosi che, se pur deboli, negli anni possono arrivare a distruggere progressivamente gli organi vitali. Si parla per esempio di cardiopatia da Cesio, una patologia che genera insufficienza cardiaca irreversibile e che può provocare la morte (anche nei bambini), ma anche di carcinomi alla tiroide, leucemie e altre tipologie di tumori.

In 5 settimane di permanenza in Italia, i bambini riescono a scaricare fino al 40% di Cesio presente nel loro organismo

Recentemente La Repubblica ha pubblicato un video che pone l'attenzione su un'accoglienza in Italia ormai ai minimi storici (da 30mila a poco più di 10mila affidi l'anno secondo il Ministero delle Politiche Sociali, 2015), eppure le associazioni che si impegnano ogni anno per accogliere questi bambini dalle teste bionde e gli occhi azzurri ci sono ancora. Per fortuna.

Francesca e Vincenzo

Abbiamo incontrato Francesca, insegnante in un asilo nido in provincia di Monza, che quest'anno con suo marito Vincenzo ha accolto per il secondo anno consecutivo il piccolo Vlad, appoggiandosi all'associazione Kupalinka.

Come hai conosciuto l’associazione Kupalinka?

Abbiamo conosciuto l’associazione tre anni fa, ma quando abbiamo iniziato a farne parte purtroppo era tardi per proporsi come famiglia ospitante: i documenti per l’arrivo dei bambini erano già stati fatti e non avevamo altra possibilità che proporci come famiglia di riserva. È passato un anno e nel frattempo abbiamo avuto modo di conoscere e approfondire tutte le attività svolte in questo tempo dai volontari e dalle famiglie dell'associazione. È stato molto utile perché ci siamo resi conto che era una cosa fattibile, anche per una coppia come noi, impegnata con il lavoro tutto il giorno. Nell’autunno del 2017 abbiamo nuovamente dato la nostra disponibilità per accogliere un bambino e a giugno è arrivato Vlad.

Come è stata la tua esperienza di accoglienza?

L’impatto del primo anno non è stato semplicissimo. È stato necessario fare un po’ di rodaggio, prendersi le misure reciprocamente. Vlad aveva solo 7 anni ed è arrivato in Italia con uno zainetto che conteneva solo due snack per il viaggio, un paio di calzini, un paio di pantaloncini e un paio di mutandine.

Banalmente, anche capire cosa gli piacesse esattamente da mangiare non è stato immediato. Così al terzo giorno lo abbiamo portato al supermercato e abbiamo scoperto che andava matto per i bocconcini di pollo, i wurstel, il prosciutto cotto, le patate, le pannocchie e i cetrioli. Apprezza anche tutte le varietà di frutta che abbiamo noi e che difficilmente trova nel suo Paese: il melone, l’anguria e le ciliegie più di tutte. E poi il gelato per cui ha davvero un debole.

L'obiettivo in questo mese è far stare bene questi bambini. Fargli vedere che c’è un altro mondo, fargli fare un’esperienza di cose che non hanno mai fatto e che forse non faranno più una volta rientrati a casa: una giornata in piscina, il Luna Park, una settimana al mare… esperienze per noi normalissime, ma non per loro.

Anche la convivenza ha avuto tutte le sue fasi. Vlad inizialmente non ne voleva proprio sapere di fare il bagno, ma poi si è abituato. Abbiamo sempre rispettato il suo essere pudico e accolto con affetto il suo lavarsi con gli indumenti intimi ancora addosso.

Vlad in visita ad un parco faunistico durante la sua permanenza in Italia.

E il secondo anno?

Il secondo anno è stato molto più facile. Vlad conosceva già le nostre abitudini. Sapeva che ogni giorno ci si fa la doccia, qual è l'ora per andare a dormire, cosa mangiare e così via. E poi ci conoscevamo già.

Com’era la giornata tipo di Vlad?

Vlad ha passato in Italia un mese, di cui una settimana in una località al mare insieme agli altri bambini ospitati. Le altre settimane le ha passate naturalmente con noi, ma l’associazione prevede che trascorrano la giornata nel centro estivo dell’oratorio, dalla mattina presto al pomeriggio.

Terminate le attività del centro estivo i bambini giocano ancora insieme o stanno con la loro famiglia, ma si tende sempre a far passare loro molto tempo insieme. La rete delle famiglie dell’associazione è molto unita e in questo caso l’aiuto reciproco è evidente, fondamentale. Ci tengo a dire che non si rimane da soli in questa esperienza, ma si viene accompagnati dall’inizio alla fine.

Come vi siete salutati?

L’anno scorso è stato più facile perché sapevamo che ci saremmo visti dopo un anno (l’associazione prevede che una famiglia ospiti lo stesso bambino per due anni di seguito). Quest'anno è stato diverso, un distacco di sicuro più malinconico, ma comunque sereno. Vlad aveva comunque voglia di tornare a casa, ha una sorella maggiore e una buona famiglia alle spalle (cosa non sempre scontata, considerate le frequenti condizioni di povertà e talvolta i problemi di alcolismo di molti genitori). Ci scriviamo durante l'anno e sappiamo che ha un bel ricordo dell'esperienza in Italia.

Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

L’esperienza è davvero unica. È vero che offri la tua ospitalità a questi bambini, ma loro ti restituiscono tanto di più. Basta vedere la gioia nei loro occhi quando stanno facendo qualcosa per la prima volta. Vedi tutto quell'entusiasmo che difficilmente vedi nei nostri bambini. È un’onda che ti arriva. Impariamo tanto da loro. Ci rendiamo conto di essere davvero nati e cresciuti in una parte del mondo fortunata. La questione non ruota solo intorno al disastro di Chernobyl e ai problemi di salute che questa tragedia ha o può aver causato alle generazioni contemporanee e a quelle future. Nell'accogliere questi bambini ci si rende conto dello stato di povertà in cui vivono. Così quando ripartono tendiamo a riempirli di vestitini, di giocattoli, di libri e di tutto quello che pensiamo possano aver bisogno una volta rientrati nel loro Paese; anche se una delle guide dell'associazione ci ricorda sempre che “non dobbiamo riempire la loro valigia, ma riempire il loro cuore”. E noi speriamo di averlo fatto.

Fonte| Associazione Aiutiamoli a Vivere

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