Quanto è (ir)razionale la psicosi da coronavirus?

A seguito dei timori legati a un possibile contagio, anche in Italia aumenta la diffidenza nei confronti della comunità cinese, con una serie di episodi di intolleranza e di discriminazione. Questo succede anche perché conviene sempre cercare un capro espiatorio in una situazione di paura e di incertezza, come avverte la psicologia sociale.
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Federico Turrisi 18 Febbraio 2020
* ultima modifica il 25/09/2020
Intervista alla Dott.ssa Augusta Isabella Alberici Docente di Psicologia sociale presso l’Università Cattolica di Milano

Appena vedi sui mezzi pubblici una persona di nazionalità cinese, o anche solo con i lineamenti orientali, tendi a prendere le distanze oppure a coprirti il naso e la bocca? Ultimamente preferisci non andare al ristorante cinese, anche se prima nessuno ti poteva fermare quando si trattava di abbuffarsi in qualche all you can eat? Bene, se così fosse, sei stato contagiato dal virus. Ma da quello della stupidità. La diffusione del nuovo coronavirus SARS-CoV-2 in Cina pare inarrestabile e ha come effetto collaterale anche quello di far riemergere, soprattutto in noi occidentali, pensieri che quanto meno dovremmo tenere ben nascosti. Prendere le dovute precauzioni è più che corretto: l'Oms invita però a lavarsi le mani, non a evitare i cinesi.

Basta rileggere "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni per osservare gli effetti della psicosi provocata da un'epidemia (nel romanzo si parla della peste del 1630). Parliamoci chiaro, la situazione attuale non è neanche lontanamente paragonabile a quella raccontata da Manzoni. Ricordiamo che i casi confermati in Italia finora sono soltanto 3, in Europa 45. Eppure, i meccanismi che scattano nella psiche collettiva e in quella individuale sono gli stessi, perché connaturati a noi esseri umani. "Il coronavirus è un esempio perfetto, in negativo ovviamente, di come le dinamiche psico-sociali possano portare a vedere in maniera pregiudiziale i gruppi culturali diversi da quello di appartenenza", afferma Augusta Isabella Alberici, docente di Psicologia sociale e di Comunicazione e persuasione presso l’Università Cattolica di Milano. "Parole come quarantena e contagio evocano delle paure antiche e attivano comportamenti fortemente semplificatori. Comportamenti che sono volti alla conservazione del proprio gruppo, alla sopravvivenza".

E fin qui niente di male…

"Assolutamente. Ma poi questi meccanismi di difesa vanno ad agire sulla sfera del ragionamento e portano a distorcere la realtà. Qui entra in gioco la psicologia sociale, che si occupa di pregiudizi e di percezione da parte dei gruppi. In realtà, sono processi del tutto razionali. La nostra mente tende a semplificare la realtà per formare i cosiddetti bias cognitivi, ossia distorsioni sistematiche che a volte ci aiutano a leggere la realtà ma altre volte ci fanno sbagliare. Per esempio, tale operazione di semplificazione potrebbe portare a vedere il mondo asiatico come piuttosto omogeneo ("sono tutti uguali"), quando invece non è così. Con l'epidemia da coronavirus i cinesi stanno pagando il prezzo più alto in fatto di percezione da parte di noi occidentali."

Qual è il ruolo dei media?

"È senz'altro significativo. Coprendo questa tematica in modo così pervasivo, anche giustamente visto che è un tema importante che riguarda la sanità pubblica, inconsapevolmente creano nella mente delle persone delle associazioni che via via si rafforzano. In questo caso, parliamo della ripetuta associazione di parole come virus, malattia, contagio, quarantena, pericolo all'etnia cinese. Usando delle etichette semplicistiche, i media non fanno altro che accentuare questo fenomeno in maniera indiretta. Le associazioni negative sono poi difficili da modificare col tempo."

Ma allora come ci si difende dalla formazione di queste associazioni, di questi pregiudizi?

Per natura noi esseri umani siamo dei conservatori cognitivi, nel senso che facciamo molta fatica a cambiare idea. Una volta che si è consolidato un pensiero, un atteggiamento è molto difficile cambiarlo, perché in fondo la nostra mente segue un processo di adattamento alla realtà che ci porta a categorizzare. La comunicazione online non aiuta, dal momento che è molto selettiva: noi già abbiamo un certo tipo di idea, andiamo a cercare una conferma a ciò che pensiamo, gli algoritmi a loro volta accentuano questo meccanismo, di conseguenza la fossilizzazione di una convinzione sarà sempre più radicata. È il cosiddetto effetto echo chamber. Tutto sembra fatto per rendere estremamente difficile contrastare questi processi cognitivi che portano al pregiudizio. Bisognerebbe esporsi a punti di vista diversi, e allenarsi a farlo. Non a caso si parla di apertura mentale. Questa forse è la soluzione, solo che non è proprio facile da tradurre nella pratica."

Dunque la paura legata al coronavirus, la "caccia all'untore" sono dei fenomeni fin troppo razionali, è corretto?

"Eh sì, è quello che dice la psicologia sociale, che ribalta la prospettiva della psicologia delle folle di Gustave Le Bon che vede il comportamento collettivo come qualcosa di irrazionale, come un lasciarsi andare a un deterioramento morale eccetera. La psicologia sociale dice invece «attenzione, il pregiudizio dipende da fattori cognitivi che ci servono a interpretare la realtà». Siamo tutti soggetti a questa semplificazione, anche se abbiamo tutti un differente background, un differente stile cognitivo e via dicendo. Il razzismo, ahimè, poggia su questi meccanismi assolutamente normali. E poi ci sono le emozioni che giocano il loro ruolo. Tutto ciò viene infatti amplificato quando le persone si sentono minacciate, hanno paura, si trovano in una situazione di incertezza economica. Quando ci sentiamo insicuri, aumentano gli episodi di discriminazione e direzioniamo la nostra frustrazione verso un capro espiatorio."

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