Riforestazione: che cosa significa e perché per farla non basta piantare tanti alberi

Riforestare non significa soltanto piantare tanti alberi. Riforestare vuol dire studiare il territorio, scegliere con cura le specie e creare un nuovo ecosistema in grado di crescere e tutelarsi grazie alla collaborazione delle varie specie che ne fanno parte. Ne abbiamo parlato con il ricercatore Giorgio Vacchiano.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Sara Del Dot 11 Agosto 2021

Se una rondine non va primavera, un albero non fa una foresta. Ed è importante tenerlo a mente ogni volta in cui sentiamo nominare la “riforestazione” come se si trattasse di un intervento semplice, immediato e di poca pianificazione.

Riforestare, farlo bene, realmente e in modo duraturo, è tutt’altro che intuitivo. Dietro a interventi del genere, infatti, ci vuole studio, conoscenza del territorio e il coinvolgimento di figure esperte da cui farsi consigliare. Noi, per parlare di questo argomento, abbiamo interpellato Giorgio Vacchiano, Ricercatore in gestione e pianificazione forestale.

Cos’è esattamente la riforestazione?

Parlando di “riforestazione” si potrebbe pensare semplicemente all’atto di piantare alberi. In realtà la situazione è un po’ più complessa di così e richiede di certo maggiore attenzione. Piantare, infatti, non basta. È necessario, appunto, riforestare, ovvero ricreare un intero ecosistema, un’azione che non riguarda soltanto i numeri, la quantità, ma soprattutto le relazioni. Relazioni che vanno stimolate tra gli alberi, ma anche tra gli alberi e tutte le altre diverse componenti degli ecosistemi. E per incentivare la formazione di un nuovo ecosistema articolato nelle proprie relazioni è necessario progettare bene e in modo ragionato.

Quali sono gli aspetti da tenere sempre presenti se si desidera avviare un progetto di questo tipo?

Naturalmente si comincia dagli alberi, ma non tutti gli alberi sono uguali e non tutti vanno bene per qualsiasi territorio. La prima cosa da fare, infatti, è capire quali siano giusti per il luogo cui vogliamo destinarli. Ogni specie ha i propri gusti e le proprie necessità in termini di suolo, clima, disponibilità idrica. Ed è bene tenere a mente anche i benefici che vogliamo ottenere da questa foresta in futuro.

Inoltre è importante creare una foresta eterogenea, che comprenda un mix di specie diverse e con diverse necessità e caratteristiche così che possano difendersi a vicenda. Più una foresta è eterogenea più è resiliente.

Un terzo aspetto da non sottovalutare è la capacità di propagarsi delle piante già presenti. Nel mondo esistono molti luoghi in cui le zone da riforestare si trovano in prossimità di una foresta. In quel caso se le piante già presenti fossero lasciate in pace, libere di propagarsi o si favorissero semplicemente le condizioni per la loro riproduzione naturale, avverrebbe una riforestazione naturale con una selezione fatta dalla natura stessa. Spesso infatti basta interrompere le nostre interferenze perché le foreste riconquistino il territorio perduto. Che è un po’ ciò che accade nelle aree montane dell’Italia, con i boschi che si riprendono i luoghi abbandonati, e che dovrebbe accadere anche nelle foreste tropicali depauperate, che sono il primo grande target delle operazioni di riforestazione. Ci sono invece luoghi, ad esempio la Pianura Padana, in cui riportare attivamente gli alberi è necessario, dal momento che non ce ne sono più.

Infine, non bisogna mai dimenticare che gli alberi piantati non vanno soltanto posizionati ma devono vivere, sopravvivere negli anni, e perché questo accada ci vogliono cure, protezione dalla siccità e dagli erbivori.

Un esempio di intervento di riforestazione avvenuta in modo superficiale?

Da ormai 30 anni la Cina ha investito svariate risorse nei rimboschimenti. Lo scopo era quello di fermare l’avanzata della desertificazione per aumentare la disponibilità d’acqua per tenere in vita i fiumi e favorire l’agricoltura. Il punto di partenza di questi interventi era buono, perché si aveva un obiettivo ben preciso.

Il problema è che sono stati scelti gli alberi sbagliati. Infatti per questa operazione sono stati selezionati soltanto pioppi, perché crescono più in fretta degli altri. Peccato che il pioppo sia una specie molto esigente dal punto di vista dell’acqua. Insomma, l’effetto finale di questa operazione è stato esattamente il contrario di quello desiderato: gli alberi, che necessitavano di molta acqua, hanno prosciugato le falde presenti, contribuendo a diminuire ulteriormente la portata del fiume Giallo e quindi alla fine la popolazione aveva meno acqua di prima.

Un altro errore è stato utilizzare una sola specie, o comunque poche specie di pioppo. E quando gli alberi si sono indeboliti con le ondate di calore o siccità, sono diventati facile preda di un parassita che ne ha causato la morte. Se la foresta fosse stata eterogenea le varie specie si sarebbero potute difendere a vicenda.

Qual è il ruolo della riforestazione nell’assorbimento della CO2?

Oggi si parla molto di riforestazione proprio in merito alla sua funzione di assorbimento della CO2, ma ci sono alcuni aspetti che non è possibile ignorare. Per prima cosa bisogna farlo senza danneggiare gli altri obiettivi. Lo stesso IPCC in un rapporto mette in guardia nei confronti dei grandi rimboschimenti fatto per crescere velocemente e mangiare carbonio, dal momento che questa pratica potrebbe essere disastrosa per la biodiversità. Un esempio sono le macrocolture di eucalipto che certamente assorbono CO2 ma distruggono la biodiversità. E dato che stiamo affrontando due crisi ambientali, quella del clima e quella della biodiversità, anche nelle pratiche di riforestazione è fondamentale considerarle entrambe.

Un altro rischio in questo senso è il greenwashing. Tante aziende annunciano l’intenzione di piantare alberi per compensare le emissioni provenienti dalle loro attività e questa è un’arma a doppio taglio. Infatti questa scelta non è sufficiente per raggiungere gli obiettivi di zero emissioni, inoltre rischiamo che l’azienda in questione si senta legittimata ad aumentare addirittura le proprie emissioni, contando sul fatto che gli alberi piantati oggi domani assorbano il carbonio. Ciò che andrebbe fatto, invece, è una modifica dell’attività aziendale per ridurre le emissioni alla radice, non quando sono già in atmosfera.

Quindi chiunque si voglia impegnare a creare foreste, per farlo in modo serio deve prima ridurre le proprie emissioni e solo dopo piantare alberi, alberi che comunque dovranno essere curati e mantenuti. È questo è un buon criterio per distinguere le azioni di immagine, il greenwashing da interventi corretti da parte delle aziende. Riduzione delle emissioni e investimenti nella cura e nel mantenimento delle foreste.

Alla fine, ci può fare un esempio di riforestazione che invece è stata pianificata correttamente?

Dopo il grande incendio che ha colpito la val di Susa nel 2017, è stato organizzato un tavolo di discussione coordinato dalla Regione Piemonte a cui hanno partecipato diverse realtà. Ci siamo chiesti cosa avessimo perso con la combustione di queste foreste e in quanto tempo avremmo potuto farle tornare. Abbiamo capito in quali punti la foresta ci avrebbe impiegato più tempo a rigenerarsi e dove i danni fossero stati già gravi anche a livello di dissesto idrogeologico perché l’assenza di alberi avrebbe aumentato il rischio di crolli, valanghe, frane.

È stata quindi data la priorità alle zone più urgenti, abbiamo provato sia a trapiantare piantine che a spargere dei semi. Inoltre, non tutti gli alberi bruciati o caduti sono stati portati via come si fa di solito, ma abbiamo seminato proprio vicino alle piante morte e le sostanze nutritive nate dalla decomposizione del legno hanno favorito la rinascita.

L’intervento è stato effettuato l’anno scorso quindi in futuro vedremo come si svilupperà questa foresta.