Sulla neve senza barriere: così i volontari imparano ad accompagnare i disabili sulle piste da sci

Sono circa 70 i volontari che quest’inverno accompagneranno sulle piste da sci persone affette da disabilità di vario tipo. Sono gli operatori formati dalla Fondazione Silvia Rinaldi, che da anni si occupa di realizzare progetti sportivi inclusivi, che consentano a chiunque di godere dei benefici dello sport.
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Sara Del Dot 22 Dicembre 2019

Un uomo percorre la pista da sci con uno strano oggetto attaccato sulla schiena. Ogni volta che compie una curva, da quell’oggetto esce un suono: “gate… hop…hop…hop…”. Sembra uno strano meccanismo senza senso, ma basta allargare un po’ lo sguardo per individuare, pochi metri dietro di lui, un’altra persona dotata di pettorina gialla. Su di essa, la scritta “Blind – non vedente”.

Grazie a quei suoni, che sono in realtà indicazioni verbali codificate, lo sciatore non vedente riesce a fare le curve senza difficoltà, seguire i rettilinei, compiere un’intera discesa in sicurezza. E tutto questo è possibile grazie ai cosiddetti accompagnatori, da anni formati adeguatamente dalla Fondazione Silvia Rinaldi.

Attiva ufficialmente dal 2007, la Fondazione opera principalmente entro i confini della regione Emilia-Romagna e si occupa di rendere accessibili diversi sport alle persone con disabilità. Dall’arrampicata al cosiddetto blind tennis, fino alle discipline estive come la bicicletta e quelle invernali come lo sci. Le problematiche di cui la Fondazione si occupa sono le più diverse. I volontari permettono infatti di fare sport sia a persone non vedenti sia con disabilità fisiche e cognitive, preparando per loro progetti specifici che possano garantire lo svolgimento dell’attività senza il rischio di farsi male. I risultati di tutto questo sono straordinari e a raccontarceli è Matteo Brusa, segretario della Fondazione.

“Le origini di questa realtà si individuano negli anni ’90, quando alcuni amici sciatori crearono uno sci club dedicato a Silvia Rinaldi, una ragazza scomparsa prematuramente durante un incidente in montagna, spiega Matteo. “All’interno di questo gruppo di amici, pochi anni dopo entrò a far parte anche una ragazza non vedente, Silvia Parente, che in occasione delle paralimpiadi del 2006 vinse 4 medaglie, di cui un oro, nella disciplina dello sci alpino. Nel 2007 lo sci club chiuse per fare posto alla Fondazione, con l’obiettivo di offrire a sempre più persone con disabilità la possibilità di vivere le emozioni che lo sport può dare.”

A partire dalla sua nascita, la Fondazione inizia a promuovere diversi progetti di inclusione tramite lo sport, coinvolgendo anche le strutture scolastiche.

“Le discipline sportive di cui ci occupiamo sono diverse. C’è l’arrampicata, dedicata a qualsiasi disabilità ed età ma anche a chi sta seguendo terapie riabilitative, c’è il tennis dedicato ai non vedenti, chiamato “Blind tennis” che nel 2019 è stato riconosciuto dalla Fispic (Federazione italiana sport paralimpici per ipovedenti e ciechi). Poi abbiamo dedicato molto tempo e impegno a un progetto chiamato Outdoor 365, tramite il quale vogliamo permettere alle persone con disabilità di fare sport all’aria aperta tutto l’anno, ovvero in bicicletta (tandem) d’estate e sulla neve nei mesi invernali.”

Ed è proprio sugli sport sulla neve che la Fondazione ha investito molto, prima organizzando attività sul Corno alle Scale per poi aprire lo scorso anno il centro di sci adattato del monte Cimone. Qui le possibilità sono diverse. Dagli allenamenti per chi è affetto da una disabilità ma sa già sciare, fino all’accompagnamento delle persone con disabilità grave sulle piste tramite l’ausilio di una carrozzina apposita.

“Ci occupiamo di perfezionamento della tecnica, permettendo a chi è già stato avviato allo sci di allenarsi, compiendo discese tutti assieme sulla stessa pista con l’istruttore che migliora la sciata nel corso dell’attività,” racconta Matteo. “Poi organizziamo anche sci accompagnato per disabili. In pratica, la persona può richiedere un nostro accompagnatore, che ha in dotazione gratuitamente tramite la Fondazione una sedia specifica, ed essere portato da uno dei nostri tecnici volontari brevettati nella discesa, risparmiando molti soldi rispetto all’affitto di un maestro e dell’attrezzatura.”

Oltre alle discese sulla carrozzina per persone con disabilità fisiche gravi, poi, ci sono anche quelle dedicate alle persone non vedenti, che non hanno bisogno di un accompagnamento di tipo fisico bensì di essere guidate. E anche per fare questo sono necessarie preparazione e sensibilità. Quindi la Fondazione organizza corsi di formazione per insegnare ad accompagnare le persone sulle piste.

“Noi insegniamo agli accompagnatori sia a guidare le carrozzine sulla neve sia ad accompagnare i non vedenti. Il corso si articola in un weekend di teoria e due di pratica, uno per imparare a gestire le carrozzine in pista, prendendo confidenza con l’oggetto, e l’altro per imparare a guidare i ciechi sulla neve. Al termine del corso l’accompagnatore riceve il patentino di guida della Fisip che non è un brevetto, ma è un riconoscimento di una federazione nazionale che è importante avere dal punto di vista della tutela legale. Solo per quelli che imparano a guidare la carrozzina è necessario avere un patentino del produttore della sedia, che si ottiene dopo un esame finale in cui vengono valutate le capacità di guida. Al momento siamo circa una settantina di accompagnatori, ma non tutti operano in Emilia-Romagna. Alcune persone fanno il corso per poter portare questo servizio altrove.”

Un’attività complessa e soprattutto una responsabilità, dal momento che lo sciatore non vedente è autonomo sulla pista, fisicamente lontano dal suo accompagnatore.

“In questo caso non c’è un legame fisico tra le due persone che sciano. L’accompagnato si trova 4 o 5 metri dietro alla guida, che sotto il casco tiene un microfono. Questo microfono cattura la voce dell’accompagnatore e la amplifica in un altoparlante inserito in un marsupio sulla schiena della guida. In questo modo, lo sciatore non vedente può affrontare la discesa seguendo le indicazioni vocali della guida che gli parla.”

E quali sono queste indicazioni?

“La guida non dice cose come ‘curva a destra’ o ‘curva a sinistra’, ma utilizza un linguaggio standard codificato che funziona così: nel momento in cui inizia la curva dice “gate” e durante la realizzazione dell’intero arco modula la parola “hop” a seconda della pendenza e dell’ampiezza della curva che si sta affrontando. Quando poi la guida va dritta, affinché l’accompagnato riesca a seguirlo con sicurezza l’indicazione è “pa… pa…. pa…” anche questa modulata a seconda della velocità, del tipo di pendio e così via…"

Insomma, la guida che aspira a diventare accompagnatore per un non vedente deve imparare parecchie cose per riuscire a farlo con efficacia.

“Il primo esercizio che viene fatto fare a un aspirante accompagnatore è sciare bendato. È una bella prova, perché si tratta di una delle cose più difficili in assoluto per una persona che è abituata a vederci sempre. L’ho fatto anche io quando ho partecipato al corso e grazie a questa esperienza ho scoperto una cosa: finché non mi sono fidato della mia guida ogni due metri ero per terra. Quando ho capito che l’unico modo era quello di ascoltarla e darle fiducia, sono riuscito a fare due o tre curve e mi sono anche divertito.”

La fiducia rappresenta quindi uno dei concetti chiave di questa attività. Se l’accompagnato non ha fiducia nella sua guida, non si va da nessuna parte.

“Quella della fiducia e del legame tra i due soggetti è una questione molto profonda. Banalmente, il rapporto tra l’accompagnato e l’accompagnatore inizia al bar, non sulla pista, perché è necessario un momento in cui ci si conosce, si inizia a capirsi, e da lì il rapporto evolve. Una volta sulla neve, magari le prime piste saranno un po’ “scarabocchiate” ma nel corso della giornata, mano a mano che si fa pratica e si scia insieme, l’attività migliorerà progressivamente fino a raggiungere una vera e propria armonia.”

Un’armonia che si raggiunge solo ed esclusivamente grazie a un atteggiamento giusto e alla consapevolezza della responsabilità che un’attività del genere comporta. Perché, parliamoci chiaro, la guida ha nelle proprie mani la sicurezza di un’altra persona.

“Per diventare accompagnatore sono necessari requisiti umani, prima ancora di quelli tecnici. Certo, sicuramente bisogna saper sciare, avere una buona padronanza della tecnica, però le doti che servono più di tutte sono quelle umane. Bisogna avere una predisposizione all’aiuto, alla socializzazione che non sono comuni. Perché se una persona è impeccabile dal punto di vista tecnico ma fa questa cosa disinteressandosi dello scambio umano che vi avviene, i presupposti per andare avanti vengono meno.”

In più, è necessaria costanza. Una delle difficoltà principali può essere quella di far arrugginire la propria tecnica di accompagnamento perché non si fa abbastanza pratica.

"Il nostro impegno è infatti quello di coinvolgere gli accompagnatori per più tempo possibile, anche perché noi formando loro ci assumiamo anche la responsabilità dell'accompagnato. Perché l’accompagnatore ha in mano una vita, sia che guidi la carrozzina sia che guidi un cieco."

E per raccontare i benefici di questa attività su chi le pratica, Matteo decide di portare un solo, unico esempio.

“All’interno delle scolaresche di solito ci sono circa 19 ragazzi normodotati e uno con disabilità e solitamente gli insegnanti evitano di organizzare vacanze sulla neve per evitare di trovarsi in difficoltà, non pensando che potrebbero esserci delle soluzioni anche per quell’unica persona. Noi offriamo questa possibilità, permettendo ai 19 bambini normodotati di andare a sciare con i maestri di sci e facendo sciare con noi la persona disabile, cercando di stare il più possibile assieme agli altri. L’anno scorso sono venute da noi alcune scolaresche e c’era questa bambina con una gravissima forma di autismo, parlava a fatica. Sebbene non fosse mai stata sulla neve, noi l’abbiamo fatta sciare tutto il giorno. Il giorno seguente non avevamo disponibilità ma lei ha trascorso tutto il tempo a chiedere di sciare. E quando le si domandava come era stato, si metteva a ridere e non smetteva più. Sono manifestazioni che parlano da sole.”

E dal punto di vista degli accompagnatori?

“Una cosa su cui non si medita abbastanza è che c’è sempre uno scambio. Non è una cosa che si fa solo per far stare bene gli altri, si fa anche per se stessi. Perché noi diamo il tempo, che è una delle cose più preziose che abbiamo, ma contemporaneamente riceviamo una gioia, un’energia che poche altre attività riescono a dare.”