
Hai mai sentito parlare del Deep Sea Mining? Probabilmente questo nome non ti dice granché, ma potrebbe diventare la nuova frontiera per ottenere i metalli rari (nichel, cobalto, manganese, rame) che servono, tra le altre cose, a produrre le batterie che alimentano i nostri smartphone, ma anche le auto elettriche. Sul fondo degli oceani, a oltre 4 mila metri di profondità, si trovano enormi depositi di questi minerali e la tecnologia si è evoluta a tal punto che aziende e stati cominciano a pensare di sfruttarli. Per esempio, la Norvegia potrebbe autorizzare le società per l'estrazione in acque profonde già nel 2023, con l'obiettivo di garantire i materiali indispensabili alle tecnologie verdi e sostenere così la transizione ecologica del Paese scandinavo.
Finora sono state rilasciate soltanto licenze di esplorazione. Nessuno, per essere chiari, è mai andato ad arare il fondale oceanico per l'estrazione mineraria. Ma quale sarebbe il costo per l'ambiente di un'attività del genere? Alcuni studi scientifici ci dicono che i danni provocati dal Deep Sea Mining potrebbero essere irreversibili, o comunque segnare per decenni quegli habitat. Ma soprattutto non conosciamo ancora così bene la vita presente negli ecosistemi abissali e come verrebbe interferita dalle operazioni di estrazione. Il rischio è quello di alterare un patrimonio dell'umanità, come l'oceano, per il vantaggio di pochi.