Richieste di aiuto, di supporto psicologico, ma anche di informazioni sanitarie o legali. Gli operatori dei call center delle linee telefoniche d'aiuto sono le prime voci amiche che incontra chi si trova in difficoltà. Le persone LGBTQ+, in particolare, possono subire discriminazioni che si riflettono in ogni ambito e che precludono loro il diritto di accesso al lavoro ma anche ad avere un'abitazione. In occasione della Giornata contro l'omobitransfobia, che ricorre ogni 17 maggio, abbiamo voluto capire quali siano le problematiche più diffuse tra la comunità da chi le ascolta ogni giorno, come Arianna Genovese, operatrice della Rainbow Line, il centralino di aiuto del Circolo di cultura omosessuale "Mario Mieli" di Roma.
Arianna, quante telefonate avete ricevuto finora e quali sono i motivi più frequenti?
Dal giugno 2022, quando abbiamo iniziato a tener traccia delle telefonate, ne abbiamo ricevute 1500. Le vicende che sentiamo di più hanno a che fare con discriminazioni dirette. Parliamo di persone queer vittime di discriminazioni sistemiche, spesso over 40, a bassa scolarizzazione e bassa occupabilità lavorativa, quindi in precarietà economica. La loro difficoltà nel rapportarsi con i servizi influisce sulla salute fisica e mentale e, per questo, offriamo percorsi di emancipazione e di raggiungimento di un'autonomia sociale ed economica tramite operatori, assistenti sociali e consulenti del lavoro.
Altre richieste che ci fanno molto spesso riguardano la salute e la prevenzione. Ci chiedono come fare un test per verificare la presenza di malattie veneree o come si fa la PREP (profilassi pre-esposizione, consiste nel prendere farmaci anti-HIV nel momento in cui si pensa di correre il rischio di contrarre l'HIV, ndr). Ci chiamano anche giovani in precarietà abitativa e lavorativa che vorrebbero un supporto materiale e psicologico perché dopo aver fatto coming out sono stati mandati via di casa. Le situazioni sono molto diversificate tra loro.
Quali sono le persone queer più marginalizzate e com'è la loro vita?
La categoria più al margine è quella delle persone con background migratorio, soprattutto razzializzate. Per loro abbiamo istituito un'"Unità di strada" con cui ci muoviamo all'interno del Municipio 5 di Roma per mappare e dare supporto alle persone trans migranti in stato di fragilità. Ci troviamo di fronte a donne sprovviste di permesso di soggiorno e sexworker, in assoluto le più deboli della comunità. Non hanno fissa dimora o vivono in baraccopoli e arrivano in Italia, senza documenti, attraverso meccanismi di tratta sessuale. Il nostro obiettivo è accompagnarle in percorsi di aiuto che devono passare, prima di tutto, dalla ricerca di una casa e di un lavoro.
Analizzando gli utenti che vi telefonano, quali differenze e similarità ritrovi tra le diverse fasce d'età?
Chi si rivolge a noi ha un'età dai 19 ai 70 anni, tutti cercano ascolto, supporto e socializzazione. Nelle persone più grandi, però, notiamo più consapevolezza, conoscono le associazioni alle quali potersi rivolgere, sanno di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, cosa che, invece, riscontriamo poco nei ragazzi più giovani. Questi ultimi ci chiamano per chiederci basi di educazione sessuale e, a volte, anche per avere solo qualche consiglio su come affrontare il coming out, su come dirlo ai propri genitori. La gran parte dei problemi comunque deriva dalla solitudine, dal non avere una rete solida intorno, e quella è la miccia dell'insorgenza molte altre difficoltà.
Ci fai qualche esempio?
Da decenni di solitudine derivano problematiche sanitarie e sociali. Chi ha una disabilità è in una condizione ancora peggiore perché, se la persona è autonoma, riesce magari a farsi una vita al di fuori della casa familiare, ma se non lo è può essere rimanga prigioniera in casa. Una donna trans che seguiamo ha 45 anni, un ritardo cognitivo e altre patologie correlate. Non era accettata in famiglia, se n'è andata ed è stata costretta a vivere per un po' di tempo per strada.
Rispetto a qualche decennio fa, le famiglie di adesso sono più inclini a comprendere e accettare il coming out dei figli?
Le famiglie ora stanno accettando un po' più facilmente un orientamento sessuale o un'identità di genere "diversi dallo standard". Cercano di capire questi concetti e sono disposti al dialogo. Alcuni genitori ci telefonano per avere supporto o comprensione perché non sanno come comportarsi di fronte al coming out di un figlio. Telefonare a un'associazione LGBTQ+ è un enorme passo avanti, anni fa non c'era proprio questa consapevolezza.
La maggior parte delle chiamate da dove vi arriva?
Siamo molto forti sul nostro territorio quindi la maggior parte delle richieste di aiuto ci arriva da Roma. Se chiamano genitori, spesso sono anche di altre regioni. Ci colpisce, però, che ci chiamano persone anche dall'estero. Ci è capitato che ci chiamassero dall'Afghanistan, ad esempio, e in quel caso ci siamo sentiti completamente impotenti. Consigliamo loro di rivolgersi ad associazioni come Amnesty e UNHCR e, se il loro obiettivo è andarsene, diciamo loro di farlo nel modo più legale e sicuro possibile. La paura che queste persone possano imbarcarsi tramite le tratte clandestine c'è sempre.